Monthly Archives: Giugno 2015

Le Sezioni Unite della Cassazione Penale si sono pronunciate su vari importanti aspetti che concernono il rapporto tra procedura fallimentare e processo 231, partendo dal seguente quesito:

“Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 19, comma 2, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest’ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia)”.

IL FALLIMENTO NON ESTINGUE L’ILLECITO 231

Un primo principio espresso nella motivazione della sentenza non costituisce una novità, ma sancisce quanto già affermato dalla giurisprudenza:
“Deve escludersi che il fallimento della società determini l’estinzione dell’illecito previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001,… rilevato che il fallimento non è normativamente previsto quale causa estintiva dell’illecito dell’ente e non è possibile assimilare il fallimento della società alla morte del reo perchè una società in stato di dissesto, per la quale si apra la procedura fallimentare, non può dirsi estinta, tanto è vero che il curatore ha esclusivamente poteri di gestione del patrimonio al fine di evitare il depauperamento dello stesso e garantire la par condicio creditorum mentre la proprietà del patrimonio compete ancora alla società”.

LA CONFISCA 231 E’ SEMPRE OBBLIGATORIA E I DIRITTI DEI TERZI IN BUONA FEDE SONO SALVI ANCHE NELLA CONFISCA PER EQUIVALENTE

Quanto alla confisca ex art. 19, co. 1 e 2 D.Lgs. 231/01, le Sezioni Unite affermano i seguenti principi:
1) “L’applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto del reato prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, commi 1 e 2, non è lasciata alla discrezionalità del giudice, ma è obbligatoria”… “sotto il profilo lessicale il termine “può”, come è già stato posto in evidenza, segnala, non la facoltatività o la discrezionalità, ma il carattere eventuale della confisca per equivalente in relazione alla non scontata sussistenza dei due presupposti attinenti alla impossibilità di procedere alla confisca diretta del profitto ed alla necessità di individuare altri beni appartenenti all’ente responsabile”.

2) La clausola di salvaguardia del comma 1 dell’art. 19 “Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede” si riferisce anche alla confisca per equivalente. Si legge infatti nella sentenza: “La clausola di salvaguardia non è ripetuta nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, ma è fuori contestazione che essa si riferisca anche al sequestro di valore perchè con il secondo comma si estende soltanto la possibilità di confisca di danaro e beni di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato, fermi restando, quindi, i limiti fissati dal comma 1 dello stesso articolo”.

IL SEQUESTRO 231 E LA PROCEDURA CONCORSUALE POSSONO COESISTERE

Venendo al quesito iniziale, la Sentenza sancisce la possibile coesistenza del sequestro finalizzato alla confisca ex D.Lgs. 231/01 con i vincoli sui beni derivanti dalla procedura concorsuale:
Orbene i due vincoli possono coesistere e, se correttamente interpretato il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, l’uno non ostacola l’altro, anzi, sotto certi profili, si può dire che il sequestro prima e la confisca poi tutelano in misura rafforzata gli interessi del ceto creditorio”.

IL CURATORE NON E’ LEGITTIMATO AD IMPUGNARE IL SEQUESTRO 231

Secondo le Sezioni Unite: “il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19“.
Ciò in quanto: “il curatore… non può essere considerato come un soggetto privato che agisca in rappresentanza o sostituzione del fallito e/o dei singoli creditori o del comitato dei creditori, ma deve essere visto come organo che svolge una funzione pubblica ed affianca il tribunale ed il giudice delegato per il perseguimento degli interessi dinanzi indicati” ed ancora “Il curatore… è un soggetto gravato da un munus pubblico, di carattere prevalentemente gestionale, che affianca il giudice delegato al fallimento ed il tribunale per consentire il perseguimento degli obiettivi, già indicati, propri della procedura fallimentare”

Se ne deve dedurre una ulteriore logica conseguenza che sarebbe stato bene fosse chiarita in modo espresso e cioè che, come già affermato in dottrina, in caso di fallimento l’ente non sta in giudizio 231 in persona del curatore, ma degli organi sociali che ne avevano la legale rappresentanza e che rimangono in carica per il compimento degli atti non vietati dalla procedura fallimentare.
Tale questione specifica era rimasta aperta e non risolta già in seno alla sentenza Cass. Pen. Sez. V n. 44824 del 2012, ove si legge soltanto che “la questione circa l’individuazione del soggetto legittimato a stare in giudizio nel processo di responsabilità amministrativa dell’ente è una questione processuale da risolvere nel processo…” .

LA COMPETENZA A DECIDERE SE IL DIRITTO DI UN TERZO PREVALGA SULLA CONFISCA 231 E’ DEL GIUDICE PENALE E NON DI QUELLO FALLIMENTARE

Le Sezioni Unite affermano il seguente principio: “La verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare“, chiarendo che “Quando, però, sia stata pronunciata sentenza definitiva di condanna dell’ente e sia stata disposta la confisca dei beni appartenenti allo stesso, il giudice competente a decidere sulla istanza del terzo non potrà che essere il giudice dell’esecuzione penale, che, ai sensi dell’art. 665 c.p.p. e ss., è chiamato a risolvere, su istanza delle parti interessate, tutte le questioni che attengono alla esecuzione dei provvedimenti giudiziari definitivi”.

I BENI SOTTOPOSTI A SEQUESTRO 231 POSSONO ESSERE VENDUTI IN SENO ALLA PROCEDURA FALLIMENTARE?

Fino a qui i principi espressi dalle Sezioni Unite appaiono chiari, ma laddove la sentenza in esame affronta i meccanismi di coesistenza del sequestro 231 e della procedura concorsuale nascono alcune perplessità di non pacifica soluzione.

Secondo le Sezioni Unite, tale coesistenza di vincoli non determinerebbe alcun pregiudizio in quanto “se venga disposta la confisca dei beni in pendenza di una procedura fallimentare sugli stessi, lo Stato potrà insinuarsi nel fallimento per far valere il proprio diritto, che sarà soddisfatto dopo che siano stati salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede” ed, in altro passaggio argomentativo, “lo Stato, come si è posto in evidenza, potrà far valere il suo diritto sui beni sottoposti a vincolo fallimentare, salvaguardando i diritti riconosciuti ai creditori, soltanto a conclusione della procedura“. Ciò secondo la Suprema Corte potrà avvenire “soltanto alla fine della procedura” quando “si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere alla assegnazione dei beni ai creditori” in quanto “è soltanto in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate“.

Dunque, si evidenzia che i terzi creditori potranno far valere avanti il Giudice Penale i propri diritti su quanto sequestrato o confiscato solo dopo la vendita fallimentare dei beni stessi, che dovrebbe dunque essere autorizzata e disposta in pendenza del sequestro ai fini della confisca 231. Ma ciò non è sicuramente previsto dall’art. 53 D.Lgs. 231/01, che prevede solo la possibilità di utilizzo e gestione dei beni sequestrati per garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, anche, secondo le Sezioni Unite, da parte del Curatore.

Ad alimentare le nostre perplessità è anche quanto affermato con Ordinanza della Cass. Pen. Sez.III n. 12639/2013: “Secondo la giurisprudenza di questa Corte anche a sezioni unite – alla quale si intende senz’altro prestare adesione – il sequestro avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura fallimentare. La valutazione che viene richiesta ai giudice della cautela reale sulla pericolosità della cosa non contiene margini di discrezionalità, in quanto la res è considerata pericolosa in base ad una presunzione assoluta: la legge vuole escludere che il bene sia rimesso in circolazione, sia pure attraverso l’espropriazione del reo, sicchè non può consentirsi che il bene stesso, restituito all’ufficio fallimentare, possa essere venduto medio tempore e il ricavato distribuito ai creditori”.

Ma se i beni sequestrati a fini di confisca non possono essere venduti e solo dopo la vendita e l’approvazione del piano di riparto i terzi “potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate”, quid iuris?

Cliccare qui per il testo della Sentenza Cass. Pen. Sez. Unite 11170/2015

Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca

Il tema sempre vivo della 231 e l’interesse del legislatore al continuo ampliamento delle fattispecie di reati presupposto si rileva dalla lettura delle leggi promulgate a maggio, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.

La Legge 22 maggio 2015 n. 68 ha introdotto nuove fattispecie di reato presupposto quali Inquinamento ambientale, Disastro ambientale nella fattispecie colposa e dolosa, e Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività che dovranno essere prese in considerazione al fine di verificare, in ciascun specifico ente secondo l’attività svolta e l’organizzazione in atto, il livello di esposizione a tali rischi reato presupposto e se e con quali modalità i protocolli di prevenzione vadano integrati ovvero aggiornati.
Si evidenzia che tra i reati presupposto vi è anche l’art. 452octies. Con tale previsione il legislatore intende espressamente colpire gli enti aventi una politica d’impresa volta a favorire i reati associativi, anche di stampo mafioso, aventi come scopo la commissione “dei delitti contro l’ambiente” contemplati dal Titolo VI-bis del Libro secondo del Codice Penale.

Secondo la L. 27 maggio 2015, n. 69, il prossimo 14 giugno 2015 entrerà in vigora il novellato art. 25ter relativo ai reati societari.
Sottolineiamo che è la prima volta che il legislatore interviene nel modificare il corpus del D.Lgs. 231/01 con riferimento ai criteri di imputazione. Sino ad ora infatti l’unica modifica ha riguardato l’art. 6 co. 4 bis che ha introdotto la possibilità di affidare le funzioni di Organismo di Vigilanza al Collegio sindacale e ad altri Organi di controllo indicati, modifica concernente elementi relativi all’esimente dalla responsabilità 231.
In questi ultimi anni spesso si è parlato della necessità di uniformare i criteri di imputazione della responsabilità 231 non facendo distinzioni nella tipologia di reati presupposto. In particolare si discuteva della previsione contenuta al comma 1 dell’art. 25ter in cui il legislatore, discostandosi dai criteri di imputazione previsti all’art. 5 effettuava una previsione ad hoc per i reati societari. In particolare non si contemplava il requisito del ‘vantaggio’, aspetto peraltro già risolto in giurisprudenza (sul punto si veda Cass. Pen. sez. V sent. 4.3.2014, n. 10265)  e non veniva espressamente  prevista la figura dell’ ‘amministratore di fatto’ con evidenti implicazioni e problematiche in sede di contestazione degli illeciti.
Tali questioni hanno trovato accoglimento nell’art. 12, comma 1, lett. a), L. 27 maggio 2015, n. 69 che novellando l’art. 25ter ha abrogato tale previsione (“In relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, se commessi nell’interesse della società, da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza, qualora il fatto non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica …”).
Pertanto d’ora innanzi i criteri soggettivi ed oggettivi che i magistrati dovranno considerare per l’imputazione della responsabilità amministrativa 231 di società, associazioni ed enti saranno esclusivamente quelli contemplati al comma 1 dell’art. 5 D.Lgs. 231/01:
L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a)  da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b)  da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)
”.
Evidenziamo che le novità relative all’art. 25 ter riguardano anche la modifica delle lett. a) e b) del comma 1 con riferimento all’aumento delle sanzioni pecuniarie e l’introduzione delle fattispecie contemplate all’art. 2621 bis (Fatti di lieve entità) tra i reati presupposto.

Si allega il testo aggiornato del D.Lgs. 231/01.

Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca

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PRESENTAZIONE

Il Master 231 ha come obiettivo specializzare il professionista che intende svolgere attività di consulenza tecnico-giuridica alle aziende per l’impostazione e costruzione del Modello 231.
A tal fine, dopo aver illustrato il quadro normativo del D.Lgs. 231, verranno affrontati tutti gli steps della procedura per impostare la costruzione del Modello, nonché le problematiche che più di frequente si riscontrano “sul campo”. Il tutto si svilupperà sulla base di una simulazione di un caso concreto che accompagnerà il professionista in tutte le diverse fasi operative.
Un focus verrà dedicato anche alle fattispecie di reato più diffuse, valutando le ipotesi più frequenti di realizzazione e quindi i relativi protocolli specifici da poter adottare.
L’ultimo incontro illustrerà invece il ruolo e i compiti dell’Organismo di Vigilanza, nonché le fasi di accertamento della responsabilità e le relative azioni difensive per l’Ente.

SEDI E DATE

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Hotel AC Bologna
19 giugno 2015
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29 giugno 2015
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La Sentenza della Sesta Sezione della Suprema Corte n. 18257 del 30.4.2015 affronta sotto un nuovo aspetto il peculiare istituto della “prescrizione” degli illeciti ex D.Lgs. 231/01.

Tale istituto rappresenta indubbiamente un elemento di anomalia nel complesso sistema punitivo delineato dal D.Lgs. 231/01, sia laddove alla “prescrizione” si affianca il diverso istituto della “decadenza dalla contestazione” di cui all’art. 60 del Decreto stesso, sia nell’individuazione degli effetti interruttivi della prescrizione connessi all’atto di contestazione dell’illecito secondo l’art. 22.

La citata anomalia consiste nella introduzione di principi analogicamente tratti da norme processuali di diritto civile in seno alla disciplina di una responsabilità pacificamente riconosciuta dalla Suprema Corte come di matrice penale.

Che la Responsabilità Amministrativa 231 ed il sistema punitivo delineato dal D.Lgs. 231/01 siano di natura penalistica, al di là dell’espresso richiamo alle norme del codice di procedura penale di cui all’art. 34, è un principio affermato da numerosissime pronunce della Corte di Cassazione, che ne traggono le dovute conseguenze.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla Sentenza n. 10561 del 5.3.2014 con la quale le Sezioni Unite, dopo aver affermato l’irrazionalità dell’assenza dei reati tributari tra i reati presupposto della Responsabilità 231, concludono evidenziando che “Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale l’art. 25 Cost., comma 2, deve ritenersi ostativo all’adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore”.

Ebbene, nell’alveo di un siffatto sistema punitivo penalistico, ove si affronta l’istituto della prescrizione delle sanzioni si attinge invece a principi di diritto  civile, ed infatti l’art. 22 D.Lgs. 231/01 dispone:
“1.  Le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato.
2.  Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59
4.  Se l’interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio“.

E’ evidente l’estraneità di tale effetto sospensivo della prescrizione sino al passaggio in giudicato della sentenza, rispetto ai principi che regolano la prescrizione di cui all’art. 157 e ss. del codice penale ed invece l’analogia rispetto all’art. 2945 co. 2 del codice civile.
Ed, infatti, la Cassazione, già con Sentenza Cass. Pen. sez V n.20060 del 9.5.2013, ha affermato: “D’altronde, se è vero che l’illecito amministrativo si prescrive in cinque anni dalla commissione dal reato, è anche vero che si devono applicare le cause interruttive del codice civile e pertanto la prescrizione non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento (articolo 2945 cod. civ.. Per un caso analogo si veda Sez. 4, n. 9090 del 05/04/2000, Lefemine, Rv. 217126: A norma degli artt. 2943 e 2945 cod. civ. la prescrizione è interrotta dall’atto col quale si inizia un giudizio ed essa pertanto non decorre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il processo…”.

La Sentenza in commento n. 18257 del 30.4.2015 individua il perchè dell’anomalia sopra descritta, riconoscendone la causa nella precisa scelta legislativa operata in seno alla L. 300/2000, di cui il D.Lgs. 231/01 rappresenta il Decreto attuativo. Infatti all’art. 11 della L. 300/2000 è prevista la delega al governo a r) prevedere che le sanzioni amministrative di cui alle lettere g), i) e l) si prescrivono decorsi cinque anni dalla consumazione dei reati indicati nelle lettere a), b) c) e d) e che l’interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile“.

Ciò detto, la nuova pronuncia in commento affronta il diverso aspetto concernente il momento in cui l’atto interruttivo della prescrizione, consistente nella contestazione dell’illecito, esplicherebbe i propri effetti, se con l’emissione della richiesta di rinvio a giudizio secondo le regole del codice penale oppure soltanto nel momento dell’avvenuta notifica di tale richiesta.

Scrive la Corte: “Ciò posto, va considerato come non è in dubbio, in quanto espressamente previsto, che nella disciplina dell’interruzione della prescrizione del diritto civile (art. 2943 c.c.) l’effetto di interruzione si ottenga con la portata a conoscenza dell’atto nei confronti del debitore, in particolare con la notifica degli atti processuali; del resto la ragione è che, in quel caso, l’atto introduttivo rappresenti la richiesta al debitore che non può che decorrere dalla effettiva conoscenza, mentre, nel processo penale, la prescrizione rileva in quanto mancato esercizio dell’azione penale, tenendosi perciò conto del compimento delle attività relative, ovvero dell’emissione dei provvedimento, e non della notifica.”

La conseguenza, nel caso di specie, è stata la conferma della pronuncia dichiarativa di prescrizione a fronte di una richiesta di rinvio a giudizio emessa prima dello scadere del quinto anno, ma notificata soltanto dopo la scadenza medesima.

Per il testo completo della Sentenza Cass. Pen. Sez. VI n. 18257/2015 cliccare qui.

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