Riportiamo di seguito il testo del nostro articolo, già pubblicato sul settimanale giuridico “Euroconference Legal”.

Modello 231 nelle Società controllate da P.A. ed Enti pubblici

di Alberto Tenca e Anna Di Lorenzo, con la collaborazione di Elena Zaggia – Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca in Padova

Il tema del rapporto tra “Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione”, ora dopo l’intervenuta riforma del D.Lgs. 97/2016 “Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza” (PTPCT), ed il Modello 231 è stato da sempre oggetto di valutazioni e considerazioni da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC). In particolare le posizioni assunte dall’Autorità hanno posto l’interrogativo se l’adozione del Modello 231 per le controllate e partecipate pubbliche fosse un “obbligo” e non un “onere” come prevede il legislatore del D.Lgs. 231/01.

Nella determinazione n. 8 del 17 giugno del 2015, l’ANAC, al Punto 2., ha previsto: “Le presenti Linee guida muovono dal presupposto fondamentale che le amministrazioni controllanti debbano assicurare l’adozione del Modello di organizzazione e gestione previsto dal D.Lgs. 231/2001 da parte delle società controllate. Oneri minori gravano, come si vedrà, per le società a partecipazione pubblica non di controllo, nei confronti delle quali le amministrazioni partecipanti si attivano per promuovere l’adozione del suddetto modello organizzativo”.

Con la riforma della L. 190/2012 ad opera del D.Lgs. 97/2016 il legislatore prende una nuova posizione sulla correlazione tra Modello ex D.Lgs. 231/2001 e PTPCT.

Il nuovo comma 2 bis inserito all’art. 1 L. 190/2012 enuncia infatti che: “Il Piano nazionale anticorruzione è adottato sentiti (…). Il Piano ha durata triennale ed è aggiornato annualmente. Esso costituisce atto di indirizzo per le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai fini dell’adozione dei propri piani triennali di prevenzione della corruzione, e per gli altri soggetti di cui all’articolo 2-bis, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai fini dell’adozione di misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, anche per assicurare l’attuazione dei compiti di cui al comma 4, lettera a). Esso, inoltre, anche in relazione alla dimensione e ai diversi settori di attività degli enti, individua i principali rischi di corruzione e i relativi rimedi e contiene l’indicazione di obiettivi, tempi e modalità di adozione e attuazione delle misure di contrasto alla corruzione”.

Tale presa di posizione dà luogo a diverse possibili interpretazioni.

La bozza di Linee Guida dell’ANAC, posta in consultazione pubblica sul sito dell’Autorità fino al 26 aprile 2017, risponde innanzitutto all’esigenza di considerare il nuovo ambito soggettivo di applicazione delle disposizioni in tema di trasparenza, delineato dal citato comma 2 bis. Tali linee guida si ripropongono di sostituire la Determinazione 8/2015.

Al Punto 3.1.1. le Linee Guida in consultazione si esprimono come segue: “In una logica di coordinamento delle misure e di semplificazione degli adempimenti, le società integrano il “modello 231” con misure idonee a prevenire anche i fenomeni di corruzione e di illegalità in coerenza con le finalità della legge n. 190 del 2012. In particolare, quanto alla tipologia dei reati da prevenire, il d.lgs. n. 231 del 2001 ha riguardo ai reati commessi nell’interesse o a vantaggio della società o che comunque siano stati commessi anche e nell’interesse di questa (art. 5), diversamente dalla legge 190 che è volta a prevenire anche reati commessi in danno della società. Nella programmazione delle misure occorre ribadire che gli obiettivi organizzativi e individuali ad esse collegati assumono rilevanza strategica ai fini della prevenzione della corruzione e vanno pertanto integrati e coordinati con tutti gli altri strumenti di programmazione e valutazione all’interno della società o dell’ente. Queste misure devono fare riferimento a tutte le attività svolte ed è necessario siano ricondotte in un documento unitario che tiene luogo del Piano di prevenzione della corruzione anche ai fini della valutazione dell’aggiornamento annuale e della vigilanza dell’A.N.AC. Se riunite in un unico documento con quelle adottate in attuazione del d.lgs. n. 231/2001, dette misure sono collocate in una sezione apposita e dunque chiaramente identificabili, tenuto conto che ad esse sono correlate forme di gestione e responsabilità differenti. È opportuno che esse siano costantemente monitorate anche al fine di valutare, almeno annualmente, la necessità del loro aggiornamento. Poiché il comma 2 bis dell’art. 1 della l. 190/2012, così come modificato dal d.lgs. 97/2016, ha reso obbligatoria l’adozione delle misure integrative del “modello 231”, è fortemente raccomandata, ove le società non vi abbiano già provveduto, l’adozione di tale modello, almeno contestualmente alle misure integrative anticorruzione. Le società che decidano di non adottare il “modello 231” e di limitarsi all’adozione del documento contenente le misure anticorruzione dovranno motivare tale decisione. L’ANAC, in sede di vigilanza, verificherà quindi l’adozione e la qualità delle misure di prevenzione della corruzione e monitorerà lo stato di adozione del “modello 231”. Le società, che abbiano o meno adottato il “modello 231”, definiscono le misure per la prevenzione della corruzione in relazione alle funzioni svolte e alla propria specificità organizzativa.

Rispetto quindi alla posizione assunta in seno alla Determinazione 8/2015, l’ANAC parrebbe ora voler lasciare alla libera decisione delle società controllate la scelta di dotarsi o meno del Modello 231.

Nelle more dell’approvazione, è intervenuto tuttavia un parere del Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 20 aprile 2017, numero affare 650/2017 – proprio in riferimento alle suddette Linee Guida.

Il Consiglio di Stato, al punto 9.1 del parere, si esprime accentuando maggiormente le intenzioni che sembrano sottointese dal legislatore con l’inserimento del nuovo co. 2 bis nell’art. 1 L. 190/2012: “Per quanto concerne le misure organizzative per la prevenzione della corruzione, nello schema delle linee guida si afferma che, alla luce dell’art. 1, comma 2 bis della L. 190/2012, l’adozione del Modello è “fortemente raccomandata” e che le società che decidono di non adottarlo e di limitarsi quindi ad adottare le misure integrative anticorruzione dovranno motivare tale decisione. Si osserva però che l’obbligo normativo sancito dall’art. 1 co. 2 bis, della L. 190/2012, sottintende l’adempimento dell’obbligo base definito dal D.Lgs. 231/2001, tant’è vero che si tratta di misure “integrative” che, altrimenti, risulterebbero prive della base organizzativa fondamentale. Peraltro, anche avendo riguardo alla ratio della previsione, l’elasticità consentita dalla formulazione delle linee guida non è funzionale al conseguimento degli obiettivi della normativa. Ne è conferma il fatto che le stesse linee guida, nel sottolineare la permanente necessità degli adempimenti anticorruzione da parte delle società pubbliche in liquidazione, sembra sottintendano (alle pagg. 22-23) l’adozione del c.d. Modello 231. Si suggerisce pertanto una formulazione che renda in modo adeguato la portata cogente dell’obbligo.

Secondo il Consiglio di Stato dunque la norma di cui all’art. 1 co. 2 bis L. 190/2012 determinerebbe un obbligo cogente per le società controllate di adozione del Modello 231.

Non ci resta che attendere l’approvazione delle Linee Guida per vedere la posizione che intenderà assumere l’ANAC, competente a sanzionare la mancanza o incompletezza dei Piani.

 

A sei anni ormai dall’ingresso nel catalogo dei reati presupposto dei reati ambientali, avvenuto con il D.Lgs. 7 luglio 2011 n. 121, entrato in vigore il 16 agosto 2011, spesso tra gli “operatori della 231” ci si ritrova a domandarsi come poter impostare al meglio la prevenzione in seno ai Modelli di organizzazione e gestione e quali aspetti e comportamenti considerare in relazione alle fattispecie di cui agli artt. 727 bis e 733 bis c.p.

Risulta allora utile, anche con riferimento alle definizioni di “impatto trascurabile”, “quantità trascurabile” e di “habitat”, andare a riesaminare la Relazione n. III/09/2011 della Corte di Cassazione, che potrà fornire utili spunti interpretativi da utilizzare come suggerimenti organizzativi nell’ottica di prevenzione dei rischi reato presupposto.

Cliccare qui per il testo della Relazione n. III/09/2011

Riportiamo di seguito il testo del nostro articolo, già pubblicato sul settimanale giuridico “Euroconference Legal”.

D.Lgs. 254/2016 – Dichiarazioni di carattere non finanziario e Modello 231

di Alberto Tenca e Anna Di Lorenzo

Il D.Lgs. 30 dicembre 2016 n. 254, in attuazione della Direttiva 2014/95/UE, introduce nel nostro ordinamento l’obbligo per determinati enti di redigere per ogni esercizio finanziario una dichiarazione di carattere non finanziario volta ad “assicurare la comprensione dell’attività di impresa, del suo andamento, dei suoi risultati e dell’impatto dalla stessa prodotta”, avente ad oggetto temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani ed alla lotta contro la corruzione attiva e passiva.

Gli enti in tal senso obbligati sono gli “enti di interesse pubblico” indicati all’art. 16 co. 1, D.Lgs. 39/2010 (società italiane emittenti valori mobiliari ammessi alla negoziazione su mercati regolamentati italiani e dell’UE, banche, imprese di assicurazione e riassicurazione) ove superino il limite dimensionale di 500 dipendenti e 20 milioni di euro come totale dello stato patrimoniale o 40 milioni di euro come totale dei ricavi netti delle vendite e delle prestazioni.

La normativa europea è stata dettata in considerazione del riconoscimento che “la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario è fondamentale per gestire la transizione verso un’economia globale sostenibile, coniugando redditività a lungo termine, giustizia sociale e protezione dell’ambiente”.

La normativa italiana che ne è scaturita con il D.Lgs. 254/2016 determina effetti rilevanti sul piano dei Modelli 231, per quanto di seguito esposto.

Principali contenuti normativi di interesse

Per meglio comprendere l’impatto di tale norma sotto l’aspetto del D.Lgs. 231/01, appare necessario esaminarne sinteticamente i contenuti.

La “dichiarazione di carattere non finanziario”, che gli indicati “enti di interesse pubblico” hanno l’obbligo di redigere, deve descrivere necessariamente, oltre alle politiche praticate ed ai principali rischi, “il modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attività d’impresa, ivi inclusi i modelli di organizzazione e di gestione eventualmente adottati ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231…” (art. 3, co. 1, lett. a).

Tale dichiarazione, che può essere “individuale” “consolidata”, quest’ultima ove redatta da enti di interesse pubblico che siano società madri di un “gruppo di grandi dimensioni”, deve essere redatta dagli Amministratori come dichiarazione distinta o contenuta nella Relazione sulla gestione, ma in ogni caso deve essere messa a disposizione dell’Organo di controllo e del soggetto incaricato della revisione legale entro gli stessi termini previsti per la presentazione del progetto di bilancio e deve essere pubblicata sul registro delle imprese.

L’Organo di controllo deve vigilare sull’osservanza della norma e riferirne nella relazione annuale all’assemblea (art. 3 co. 7).

Il soggetto incaricato della revisione legale deve verificarne la predisposizione e il soggetto stesso o altro appositamente designato, purchè abilitato allo svolgimento della revisione legale, deve esprimere apposita “attestazione circa la conformità delle informazioni fornite”, tra le quali anche, ricordiamolo, la descrizione dell’eventuale Modello 231 (art. 3 co. 10).

In caso di inosservanza sono previste a carico di Amministratori, Organi di controllo e soggetti incaricati della revisione legale pesanti sanzioni amministrative, la cui irrogazione, previo accertamento delle violazioni, è demandata alla Consob secondo proprio regolamento il cui testo è stato posto in consultazione il 21 luglio 2017.

Impatti sui Modelli ex D.Lgs. 231/01

Dal contesto delle disposizioni sopra sinteticamente riportate, emerge la rilevanza che il Modello 231 assume quale specifico contenuto della dichiarazione, per cui la norma in esame costituisce un nuovo espresso riconoscimento legislativo dell’indiscutibile importanza dei Modelli 231 nel contesto dell’organizzazione e gestione degli enti.

Si deve inoltre considerare come i principali contenuti della dichiarazione, ulteriori rispetto alla descrizione del “modello aziendale”, riguardino proprio aspetti che trovano gestione nel Modello 231 e, quindi, monitoraggio da parte dell’Organismo di Vigilanza ex art. 6 D.Lgs. 231/01. Si pensi ad esempio ai “temi ambientali” ed, in particolare alle “emissioni di gas ad effetto serra”, alle “emissioni inquinanti” ed all’impatto sull’ambiente, o ancora all’impatto sulla salute e sicurezza, alla “gestione del personale” ed alla “lotta contro la corruzione sia attiva sia passiva”.

Ne consegue che negli enti obbligati alla dichiarazione in esame ed in quelli che la redigono su base volontaria ai sensi dell’art. 7 D.Lgs. 254/2016, non solo gli Amministratori, ma anche gli Organi di controllo ed i soggetti incaricati della revisione legale sono tenuti evidentemente ad una pregnante conoscenza della situazione di attuazione ed aggiornamento dei Modelli 231, che dovrà necessariamente realizzarsi mediante un consolidato costante confronto con l’Organismo di Vigilanza.

Sotto diverso profilo, il fatto che la dichiarazione di carattere non finanziario si ponga sullo stesso piano della Relazione sulla gestione, sia rivolta ai soci, soggetta alla vigilanza degli Organi di controllo e sottoposta al potere di controllo e sanzionatorio della Consob, determina la possibilità che nel redigerla siano commessi taluni reati presupposto della responsabilità ex D.Lgs. 231/01, che il Modello 231 dovrà quindi preoccuparsi di prevenire. Si pensi, ad esempio, alla possibilità che dichiarazioni non veritiere integrino i reati di “Impedito controllo” ex art. 2625 c.c., “Illecita influenza sull’assemblea” ex art. 2636 c.c. (reato che la giurisprudenza ritiene configurabile anche ove le deliberazioni dei soci siano influenzate da dichiarazioni mendaci o reticenti) o “Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza” ex art. 2638 c.c. (in primis la Consob).

I Modelli 231 di tali enti dovranno quindi essere aggiornati per prevedere misure di prevenzione volte a garantire la veridicità e completezza dei contenuti della dichiarazione in esame.
Di aiuto nell’individuare gli aspetti che il Modello 231 dovrà considerare a tal fine, si ritene possa essere quanto previsto dalla Consob nel documento in consultazione del 21 luglio 2017 con riferimento alle responsabilità degli Organi di controllo.

Si legge infatti, al punto 2.3, penultimo paragrafo, di tale documento: “considerato che la corretta predisposizione della DNF [dichiarazione di carattere non finanziario] rappresenta, come sopra detto, l’esito di un elaborato processo di valutazione, che consenta, in base al principio di materialità, di individuare le informazioni necessarie ad assicurare la comprensione dell’attività dell’impresa e dei suoi impatti sui temi non finanziari indicati dal decreto, anche le funzioni di controllo attribuite al collegio sindacale sulla conformità alla legge della DNF e la sua completezza si sostanziano principalmente in un’attività di vigilanza sull’adeguatezza di tutte le procedure, i processi e le strutture che presiedono alla produzione, rendicontazione, misurazione e rappresentazione dei risultati e delle informazioni di carattere non finanziario.

Riportiamo di seguito il testo del nostro articolo, già pubblicato sul settimanale giuridico “Euroconference Legal”.

 

Introduzione del reato di “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” tra i reati presupposto della Responsabilità 231

di Alberto Tenca e Anna Di Lorenzo – Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca in Padova

 

La Legge 29 ottobre 2016, n. 199, entrata in vigore il 4.11.2016, rappresenta un nuovo emblematico esempio dell’incessante estensione dei reati presupposto della Responsabilità 231.
Il dato di esperienza nella produzione normativa, che dal 2001 ad oggi non ha conosciuto soluzione di continuità, induce ormai a ritenere consolidato nel nostro ordinamento un modus operandi del legislatore volto ad inserire nel testo del D.Lgs. 231/01 un reato, di nuova introduzione od oggetto di riforma alla luce del particolare allarme sociale che ingenera, estendendo ad esso la Responsabilità amministrativa degli enti quale principale strumento di contrasto.

Nel caso di specie, la Legge 199/2016 ha operato un intervento volto a rafforzare il contrasto al cosiddetto “caporalato”, modificando il testo dell’art. 603-bis c.p. concernente il reato di “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” introdotto per la prima volta con il D.L. 138/2011, convertito con modificazioni dalla L. 148/2011.

Rispetto al testo previgente, volto a punire la condotta di chi svolgesse “un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”, la nuova fattispecie risulta sicuramente ampliata.

Il reato in esame, oggi, risulta slegato dal requisito dello svolgimento di “un’attività organizzata di intermediazione”, andando a colpire non solo chi “recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento…”, ma altresì chiunque “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”.

A ciò deve aggiungersi che integra il reato de quo, rispetto alla fattispecie previgente, anche la condotta non caratterizzata da violenza, minaccia o intimidazione, posto che la violenza e la minaccia sono divenute oggi circostanze aggravanti e non più elementi costitutivi del reato.

Anche gli “indici di sfruttamento” enunciati dall’art. 603-bis c.p. assumono una connotazione più ampia, essendo oggi alcuni di essi parametrati, ad esempio, non più a condotte sistematiche di sottoretribuzione e violazione delle norme su orari, riposi, aspettativa e ferie, bensì a siffatte condotte anche solo “reiterate”.

Di particolare rilievo è anche l’indice di sfruttamento relativo alla “sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro” che oggi, a differenza di prima, rileva anche laddove non sia tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale.

Il “grave pericolo” infatti rileva ora solo quale circostanza aggravante ai sensi del comma 4 punto 3).

Inoltre evidenziamo che nel contesto di tale indice non rileva neppure la reiterazione della condotta.

L’intervento legislativo mira al contrasto del reato in esame anche attraverso altri strumenti, quali:

– l’introduzione, con l’art. 603-bis.1 c.p., di un’attenuante in caso di comportamenti collaborativi;

– una nuova ipotesi di confisca obbligatoria, con l’introduzione dell’art. 603-bis.2 c.p.;

– la previsione di un “controllo giudiziario dell’azienda”, con nomina di un “amministratore giudiziario” destinato ad affiancare l’imprenditore;

– la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza, con modifica dell’art. 380, co. 2 c.p.p.;

– l’estensione al reato in esame della particolare confisca di cui all’art. 12-sexies D.L. 306/1992.

Venendo a quanto qui maggiormente interessa, l’art. 6 della L. 199/2016, introduce il reato di cui all’art. 603-bis c.p. in seno all’art. 25-quinquies, co. 1, lett. a) D.Lgs. 231/01, prevedendo per l’ente le stesse gravissime sanzioni disposte per i diversi reati di “Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù” (art. 600 c.p.), “Tratta di persone” (art. 601 c.p.) e “Acquisto e alienazione di schiavi” (art. 602 c.p.):

– sanzione pecuniaria da 400 a 1000 quote;

– sanzioni interdittive di cui all’art. 9, co. 2 D.Lgs. 231/01, senza esclusioni, per una durata non inferiore ad un anno;

– interdizione definitiva dall’attività, se l’ente o una sua unità organizzativa sono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione del reato.

Appare dunque evidente la pericolosità insita nella previsione di tali sanzioni estreme, collegate ad un reato non più limitato a chi svolge attività organizzata di intermediazione, non più legato a violenza e minaccia come elementi costitutivi e connotato da “uno sfruttamento” i cui indici si rinvengono nella semplice reiterazione di condotte di retribuzione difforme, violazione delle norme su orario, riposo, aspettativa e ferie o nella mera sussistenza di violazione delle norme antinfortunistiche, anche non tali da esporre a pericolo il lavoratore.

Il tutto con l’unico connotato caratteristico dell’esistenza di uno “stato di bisogno” del lavoratore di cui il reo approfitti.

Rileviamo come, a contemperamento di una siffatta estensione nella possibile applicazione della norma, si debba tuttavia considerare la natura dolosa del reato in esame con la conseguenza che le condotte costituenti “indice di sfruttamento” rileveranno solo ove dolosamente preordinate a sottoporre “i lavoratori a condizioni di sfruttamento” con consapevolezza e volontà di approfittare “del loro stato di bisogno”.

Quanto detto va considerato anche nell’ottica della revisione dei Modello 231 con l’introduzione di eventuali nuovi protocolli di prevenzione e dell’impostazione dell’analisi per far emergere comportamenti a rischio.

Sicuramente assumerà rilievo in tale ambito la gestione del personale, in seno alla quale dovrà essere posta attenzione, ad esempio, ad aspetti inerenti la definizione e gestione della retribuzione e l’organizzazione dei turni di lavoro che possono avere impatto sugli aspetti disciplinati al comma 3 punto 2).

L’organizzazione della sicurezza e la gestione ed attuazione dei relativi adempimenti assumono ora ulteriore rilievo, quali possibili fonti di Responsabilità 231, indipendentemente e non più solo in connessione al verificarsi di infortuni. Quindi meriteranno una rivalutazione ed un riesame anche tali aspetti e la politica d’impresa sulla sicurezza, magari già gestiti da specifici protocolli di prevenzione e procedure.

La recente determinazione ANAC n. 8 concernente Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici, merita una approfondita lettura ed uno studio specifico rapportati a ciascuna tipologia di enti e società partecipate. Infatti sono previste modalità di adempimento diverse per “società in controllo pubblico e società a partecipazione pubblica non di controllo”, “altri enti di diritto privato in controllo pubblico e altri enti di diritto privato partecipati” ed “enti pubblici economici”.

Con specifico riferimento alle società partecipate, molte sono le considerazioni e le riflessioni che tale Determinazione porta a fare in merito al rapporto esistente tra Modelli 231 ed adempimenti anticorruzione.

Qui si vogliono evidenziare alcuni punti importanti ed alcune questione spinose su cui la determinazione ANAC, fa chiarezza confermando o parzialmente modificando quanto previsto nel precedente Piano Nazionale Anticorruzione (P.N.A.) emanato nel 2013. Contenuti del Piano che per espressa previsione dell’ANAC vengono integrati e sostituiti lì dove non compatibili con la Determinazione.

Risulta di interesse quanto la determinazione chiarisce ed innova in tema di O.d.V.

Molti di noi professionisti, nel ricoprire il ruolo di componente di O.d.V. in società partecipate, vigente il P.N.A. del 2013, si sono sentiti chiedere di ricoprire il ruolo di Responsabile della prevenzione della corruzione e Responsabile della trasparenza.

Ora l’indicazione in merito è cambiata ed il ruolo riconosciuto all’O.d.V. è riferito al momento di predisposizione delle misure di prevenzione della corruzione che “… sono elaborate dal Responsabile della prevenzione della corruzione in stretto coordinamento con l’Organismo di Vigilanza”.

Infatti la Determinazione ANAC fornisce precise indicazioni per l’individuazione del soggetto che può ricoprire il ruolo di Responsabile della prevenzione della corruzione, che deve essere un soggetto interno alla società da individuarsi con preferenza, lì dove possibile in base all’assetto organizzativo della società stessa, in un dirigente.

Resta di tutta evidenza che l’O.d.V., visto il ruolo che avranno il Modello ed i suoi protocolli nell’ottica di prevenzione della corruzione, dovrà interfacciarsi con il Responsabile ed averlo come interlocutore preferenziale nell’ambito della vigilanza sull’attuazione dei protocolli di competenza.

Utile sarà prevedere che il Responsabile della prevenzione della corruzione invii la Relazione annuale anche all’O.d.V. per lo svolgimento ed il miglioramento delle attività di competenza.

Eventuali ed ulteriori valutazioni ci si riserva di farle all’esito della pubblicazione, avvenuta il 28 ottobre 2015, dell’Aggiornamento del Piano Nazionale Anticorruzione che fornisce precise indicazioni operative, reperibile al link http://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/Comunicazione/ComunicatiStampa/_comunicati?id=c91648f20a778042504534e46e8fa04c

Aggiornamento del P.N.A. che comunque, in merito alla scelta del Responsabile, richiama integralmente quanto riportato nella Determinazione ANAC n. 8, fornendo solo alcune precisazioni per favorire l’individuazione di tale soggetto (si veda pag. 11).

Con la Determinazione n. 8 del 17.6.2015 l’ANAC ha emanato le «Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici».

Dopo anni di incertezza in merito ai confini della corretta applicazione delle norme per l’anticorruzione e trasparenza nelle società ed enti di diritto privato controllati e partecipati, arriva dall’ANAC una risposta chiara ed inequivocabile che non lascia più adito a dubbi e che impone l’adeguamento ai relativi obblighi, diversamente calibrati in ragione della posizione di controllo o mera partecipazione da parte delle Pubbliche amministrazioni, con scadenze che vanno dal tempestivo adempimento degli obblighi di pubblicazione ai fini della trasparenza di cui al D.Lgs. 33/2013, all’adozione delle misure di organizzazione e gestione per la prevenzione della corruzione ex lege n. 190/2012 che «dovrà comunque avvenire entro il 31 gennaio 2016».

Per quanto qui interessa, si deve rilevare che già nel 2013 il Piano Nazionale Anticorruzione aveva espresso il principio per il quale, nell’ambito degli enti pubblici economici e degli enti di diritto privato «Per evitare inutili ridondanze qualora questi enti adottino già modelli di organizzazione e gestione del rischio sulla base del d.lgs. n. 231 del 2001 nella propria azione di prevenzione della corruzione possono fare perno su essi, ma estendendone l’ambito di applicazione non solo ai reati contro la pubblica amministrazione previsti dalla l. n. 231 del 2001 ma anche a tutti quelli considerati nella l. n. 190 del 2012 , dal lato attivo e passivo, anche in relazione al tipo di attività svolto dall’ente (società strumentali/società di interesse generale)».

Quella che in allora era una mera possibilità, ancorata all’eventuale presenza dei Modelli di organizzazione e gestione ex D.Lgs. 231/01, diventa ora nelle parole della Determinazione n. 8 del 2015 un chiaro indirizzo, rivolto non solo a società ed enti controllati o partecipati, ma prima ancora alle Pubbliche amministrazioni controllanti e partecipanti.

Si legge infatti, con recapito alle società direttamente o indirettamente controllate dalla Pubblica amministrazione: «Le presenti Linee guida muovono dal presupposto fondamentale che le amministrazioni controllanti debbano assicurare l’adozione del modello di organizzazione e gestione previsto dal d.lgs. n. 231/2001 da parte delle società controllate».
Prosegue la Determinazione indicando che «in una logica di coordinamento delle misure e di semplificazione degli adempimenti, le società integrano il modello di organizzazione e gestione ex d.lgs. n. 231 del 2001 con misure idonee a prevenire anche i fenomeni di corruzione e di illegalità all’interno delle società in coerenza con le finalità della legge n. 190 del 2012. Queste misure devono fare riferimento a tutte le attività svolte dalla società ed è necessario siano ricondotte in un documento unitario che tiene luogo del Piano di prevenzione della corruzione anche ai fini della valutazione dell’aggiornamento annuale e della vigilanza dell’A.N.AC. Se riunite in un unico documento con quelle adottate in attuazione del d.lgs. n. 231/2001, dette misure sono collocate in una sezione apposita e dunque chiaramente identificabili tenuto conto che ad esse sono correlate forme di gestione e responsabilità differenti».

Ove si verta in ipotesi di altri enti di diritto privato controllati, diversi dalle società, poco cambia, in quanto secondo l’ANAC «Le amministrazioni controllanti assicurano, quindi, l’adozione del modello previsto dal d.lgs. n. 231/2001 da integrare con le misure organizzative e di gestione per la prevenzione della corruzione ex lege n. 190/2012».

Nell’ottica del diverso trattamento riservato dall’ANAC, alla luce del minor grado di controllo che l’amministrazione esercita, le società e gli enti meramente partecipati dalla Pubblica amministrazione sono soggetti a minori oneri, anche sotto l’aspetto che qui ci occupa. In relazione a tali società ed enti, infatti, il dovere delle Pubbliche amministrazioni di assicurare l’adozione dei Modelli 231 si riduce alla richiesta che esse se ne facciano promotrici, permanendo comunque chiara la volontà di indirizzo dell’ANAC.

Quanto alle società partecipate «Le amministrazioni partecipanti promuovono l’adozione del modello di organizzazione e gestione ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 nelle società a cui partecipano», e nell’ambito degli altri enti di diritto privato partecipati «E’ anche compito delle amministrazioni che a vario titolo vi partecipano, promuovere, da parte di questi soggetti, l’adozione di modelli come quello previsto nel d.lgs. n. 231 del 2001, laddove ciò sia compatibile con la dimensione organizzativa degli stessi».

Fatte tali ripetute inequivocabili premesse, l’ANAC individua le misure minime da adottare per il contrasto alla corruzione e per l’adempimento degli obblighi di trasparenza con un costante richiamo e coordinamento con i Modelli ex D.Lgs. 231/01.

L’assenza di tali Modelli 231, pur prevista con conseguente obbligo di adottare le misure preventive in autonomi Piani, viene dall’ANAC ricondotta in più parti della Determinazione ad una mera «ipotesi residuale».

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Il tema sempre vivo della 231 e l’interesse del legislatore al continuo ampliamento delle fattispecie di reati presupposto si rileva dalla lettura delle leggi promulgate a maggio, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.

La Legge 22 maggio 2015 n. 68 ha introdotto nuove fattispecie di reato presupposto quali Inquinamento ambientale, Disastro ambientale nella fattispecie colposa e dolosa, e Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività che dovranno essere prese in considerazione al fine di verificare, in ciascun specifico ente secondo l’attività svolta e l’organizzazione in atto, il livello di esposizione a tali rischi reato presupposto e se e con quali modalità i protocolli di prevenzione vadano integrati ovvero aggiornati.
Si evidenzia che tra i reati presupposto vi è anche l’art. 452octies. Con tale previsione il legislatore intende espressamente colpire gli enti aventi una politica d’impresa volta a favorire i reati associativi, anche di stampo mafioso, aventi come scopo la commissione “dei delitti contro l’ambiente” contemplati dal Titolo VI-bis del Libro secondo del Codice Penale.

Secondo la L. 27 maggio 2015, n. 69, il prossimo 14 giugno 2015 entrerà in vigora il novellato art. 25ter relativo ai reati societari.
Sottolineiamo che è la prima volta che il legislatore interviene nel modificare il corpus del D.Lgs. 231/01 con riferimento ai criteri di imputazione. Sino ad ora infatti l’unica modifica ha riguardato l’art. 6 co. 4 bis che ha introdotto la possibilità di affidare le funzioni di Organismo di Vigilanza al Collegio sindacale e ad altri Organi di controllo indicati, modifica concernente elementi relativi all’esimente dalla responsabilità 231.
In questi ultimi anni spesso si è parlato della necessità di uniformare i criteri di imputazione della responsabilità 231 non facendo distinzioni nella tipologia di reati presupposto. In particolare si discuteva della previsione contenuta al comma 1 dell’art. 25ter in cui il legislatore, discostandosi dai criteri di imputazione previsti all’art. 5 effettuava una previsione ad hoc per i reati societari. In particolare non si contemplava il requisito del ‘vantaggio’, aspetto peraltro già risolto in giurisprudenza (sul punto si veda Cass. Pen. sez. V sent. 4.3.2014, n. 10265)  e non veniva espressamente  prevista la figura dell’ ‘amministratore di fatto’ con evidenti implicazioni e problematiche in sede di contestazione degli illeciti.
Tali questioni hanno trovato accoglimento nell’art. 12, comma 1, lett. a), L. 27 maggio 2015, n. 69 che novellando l’art. 25ter ha abrogato tale previsione (“In relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, se commessi nell’interesse della società, da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza, qualora il fatto non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica …”).
Pertanto d’ora innanzi i criteri soggettivi ed oggettivi che i magistrati dovranno considerare per l’imputazione della responsabilità amministrativa 231 di società, associazioni ed enti saranno esclusivamente quelli contemplati al comma 1 dell’art. 5 D.Lgs. 231/01:
L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a)  da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b)  da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)
”.
Evidenziamo che le novità relative all’art. 25 ter riguardano anche la modifica delle lett. a) e b) del comma 1 con riferimento all’aumento delle sanzioni pecuniarie e l’introduzione delle fattispecie contemplate all’art. 2621 bis (Fatti di lieve entità) tra i reati presupposto.

Si allega il testo aggiornato del D.Lgs. 231/01.

Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca

Il D.Lgs. n. 39 del 4 marzo 2014 attuativo della Direttiva 2011/93/UE, all’art. 3, ha introdotto quale nuovo reato presupposto della responsabilità 231 l’adescamento di minori di cui all’art. 609 undecies c.p.
Tale reato è stato inserito in seno all’art. 25 quinquies D.Lgs. 231/01.

L’art. 12 della Direttiva Europea, infatti, disponeva quanto segue:

Responsabilità delle persone giuridiche

1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicu­rare che le persone giuridiche possano essere ritenute responsa­bili dei reati di cui agli articoli da 3 a 7 commessi a loro vantaggio da qualsiasi soggetto, a titolo individuale o in quanto membro di un organismo della persona giuridica, che detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica, basata su:
a) il potere di rappresentanza di detta persona giuridica;
b) il potere di adottare decisioni per conto della persona giuri­dica; oppure
c) l’autorità sull’esercizio del controllo in seno a tale persona giuridica.

2. Gli Stati membri adottano inoltre le misure necessarie per assicurare che le persone giuridiche possano essere ritenute re­sponsabili qualora la mancata sorveglianza o il mancato con­trollo da parte di un soggetto tra quelli di cui al paragrafo 1 abbiano reso possibile la commissione, a vantaggio della per­sona giuridica, dei reati di cui agli articoli da 3 a 7 da parte di una persona sottoposta all’autorità di tale soggetto.

3. La responsabilità delle persone giuridiche ai sensi dei pa­ragrafi 1 e 2 non pregiudica l’avvio di procedimenti penali contro le persone fisiche che abbiano commesso i reati di cui agli articoli da 3 a 7, che abbiano istigato qualcuno a commet­terli o che vi abbiano concorso.”

Il Parlamento europeo ha quindi previsto la necessità di introdurre tra i reati presupposto della responsabilità delle persone giuridiche i reati di abuso sessuale, sfruttamento sessuale, pornografia minorile, adescamento di minori per scopi sessuali, anche nelle forme dell’istigazione, favoreggiamento, concorso e tentativo.
L’art. 12 della Direttiva richiama dettagliatamente i criteri di responsabilità si cui agli artt. 5 e 7 D.Lgs. 231/01 in relazione alla posizione di apicale e sottoposto dell’autore del reato e rimarca il principio di autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica.

Si deve evidenziare che il Parlamento europeo indicava la necessità di prevedere la responsabilità delle persone giuridiche anche per le fattispecie indicate all’art. 3 della Direttiva, corrispondenti ai reati di cui all’art. 609 quater c.p. (Atti sessuali con minorenne) e 609 quinquies c.p. (Corruzione di minorenne).
Pur comprendendo la difficoltà di ipotizzare un interesse o vantaggio per l’ente in relazione a tali reati, resta il fatto che sul punto la direttiva non risulta attuata.

Prosegue senza soluzione di continuità l’intento legislativo europeo e nazionale volto ad ampliare il novero dei reati presupposto della 231, inserendo tra essi ogni fattispecie che venga all’attenzione del legislatore medesimo quale fattispecie di rilevante allarme sociale.

Cliccare qui per scaricare la Direttiva 2011_93_UE

Cliccare qui per il D.Lgs.231.01 Aggiornato-marzo2014

Con la recente sentenza n. 16359 depositata il 15.4.2014, la Corte di Cassazione, Sezione II Penale, è ritornata ad occuparsi del tema dell’interesse e vantaggio ai fini della Responsabilità D.Lgs. 231/01 collegato al reato di formazione fittizia del capitale ex art. 2632 c.c. mediante sopravvalutazione di partecipazioni azionarie.

La Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale di Bologna che ha confermato il sequestro di quasi 200 milioni di euro ai sensi degli artt. 19, 25ter e 53 D.Lgs. 231/01.
Già con sentenza n. 24557/2013 la Corte di Cassazione, Sez. VI Penale, si era pronunciata in merito annullando la precedente ordinanza del Tribunale di Bologna.

Il Tribunale di Bologna, adeguandosi da ultimo al dictum di tale precedente pronuncia della Cassazione, ha affermato che l’accertato incremento del capitale sociale, benchè fittizio, sarebbe stato realizzato anche nell’interesse ovvero a vantaggio della società, “poichè da quell’incremento era conseguito un aumento di affidabilità della medesima società nei confronti dei terzi ed una moltiplicazione del valore delle azioni, anche in conseguenza della diffusione di comunicati in ordine all’avvenuta capitalizzazione”.

La Corte di Cassazione, con la più recente sentenza ha ribadito il principio già espresso, confermando “che l’aumento fittizio di capitale costituì un’operazione effettuata nell’interesse della società, di cui questa si avvantaggiò e che, pertanto, il profitto che ne ricavò è confiscabile”.

cliccare qui per scaricare la Sentenza Cass. pen., Sez. II, n. 16359/2014

Con sentenza n. 10265 emessa dalla Sezione V della Corte di Cassazione Penale, pubblicata il 4.3.2014, la Suprema Corte affronta, nella prima parte della motivazione, il tema dell’interesse o vantaggio quali criteri alternativi di imputabilità dell’ente, in rapporto alla previsione di esclusione dalla responsabilità 231 nel caso in cui l’autore del reato abbia agito “nell’interesse esclusivo proprio o di terzi” (art. 5 co. 2 D.Lgs. 231/01).
Prosegue la Corte soffermandosi ampiamente sulla nozione di “profitto” confiscabile.

Ciò che qui più interessa, lasciando per il resto alla lettura della sentenza (qui scaricabile: Cass.Pen. sez. V n. 10265/14) è un passaggio intermedio della sentenza in cui la Suprema Corte afferma il principio secondo cui, benchè l’art. 25 ter D.Lgs. 231/01, relativo ai Reati Societari, preveda l’applicazione delle indicate sanzioni qualora tali reati siano “commessi nell’interesse della società”, senza in alcun modo menzionare il diverso criterio del “vantaggio”, ciò nonostante anche per i Reati Societari vanno applicati i distinti autonomi criteri dell’interesse o del vantaggio, quali presupposti alternativi per l’affermazione di responsabilità dell’ente.

Si riporta di seguito il percorso logico seguito sul punto nella sentenza:

“A completamento dell’interpretazione del contesto normativo di riferimento, è necessario affrontare una ulteriore questione, solo incidentalmente evocata nel ricorso alle pp. 6 e 7. Infatti la responsabilità amministrativa di Italease è stata ritenuta, nel caso di specie, anche in riferimento ai reati presupposto di ostacolo alla vigilanza (art. 2638 c.c.) e false comunicazioni sociali (art. 2622 c.c.), entrambi contemplati nel catalogo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 ter. Tale ultima disposizione, peraltro, a differenza del già citato comma 1 dell’art. 5, menziona il solo “interesse” quale criterio ascrittivo dell’illecito, scelta che potrebbe rivelare l’apparente intenzione legislativa di ridimensionare l’area della responsabilità dei soggetti collettivi in relazione ai reati societari. Ad una analisi più attenta, però, la disposizione non tarda a smentire ogni effettiva volontà di ripensamento strutturale dell’illecito nel caso questo consegua alla consumazione di un reato societario. Piuttosto sembra valere da indizio sistematico, in uno con la previsione del comma 2 dell’art. 5, alla comprensione dei due termini (interesse e vantaggio) come concettualmente autonomi e non di meno equivalenti espressivi di una funzionalità del comportamento criminoso individuale rispetto all’ottenimento di un risultato che avvantaggi l’attività sociale, nella quale, del resto, si trova racchiusa l’unica prospettiva di “interesse” concepibile in capo ad un soggetto giuridicamente organizzato.

L’art. 25 ter, infatti, è stato introdotto dalla riforma del diritto penale societario realizzata attraverso il D.Lgs. n. 61 del 2002, la cui Relazione, a proposito della disposizione in esame, espressamente precisa come la responsabilità degli enti collettivi per i reati societari sia stata configurata “nel rispetto dei principii contenuti nella L. 29 settembre 2000, n. 300 e nel D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231”, ribadendo in tal modo l’identica direttiva contenuta nella legge delega del D.Lgs. n. 61 del 2002 (L. n. 366 del 2001, art. 11). E sì vero che proprio la legge delega per prima ha poi menzionato esclusivamente l’interesse per descrivere il contesto imputativo dell’illecito, ma proprio la premessa da cui il legislatore delegante ha preso le mosse evidenzia l’assenza della volontà di configurare all’interno del D.Lgs. n. 231 del 2001 una sorta di sottosistema dedicato alla responsabilità da reato societario governato da regole autonome rispetto a quelle dettate nella parte generale del decreto.

E’ possibile quindi concludere ribadendo che la formulazione dell’art. 25 ter opera più apparentemente che sostanzialmente un allontanamento dai criteri di imputazione generale previsti dalla disciplina del D.Lgs. n. 231 del 2001, criteri che pertanto trovano applicazione anche in ambito societario, nonostante la dubbia tecnica di redazione del testo di legge”.