Dopo l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Penale, che con sentenza n. 10561/2014 hanno dichiarato “irrazionale” l’assenza dei reati tributari dall’elenco dei reati presupposto della Responsabilità 231, è ora alla Camera un disegno di legge per l’introduzione nel D.Lgs. 231/01 di un art. 25-terdecies volto a colmare tale “irrazionale” lacuna.

Il DDL n. 2400, assegnato in data 4.9.2014 alla Commissione Giustizia, propone di introdurre tra i reati presupposto della Responsabilità 231 quelli sanzionati agli articoli:

– art. 2 co. 1, 3 e 8 D.Lgs. 74/2000

– art. 4 D.Lgs. 74/2000

– art. 5 co. 1 D.Lgs. 74/2000

– artt. 10, 10-bis e 10-ter D.Lgs. 74/2000

– art. 11 co. 1 e 2 D.Lgs. 74/2000

con previsione di sanzioni pecuniarie gravi e, per alcuni di essi, di sanzioni interdittive, come noto applicabili anche in via cautelare.

Sarà interessante seguire l’iter di tale proposta di legge.

Cliccare qui per il testo del DDL 2400/14

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 218 del 9 luglio 2014, depositata il 18 luglio 2014 si è pronunciata affermando, tra l’altro, i seguenti principi:

– L’Ente chiamato a rispondere ai sensi del D.Lgs. 231/01 non può qualificarsi come “coimputato” con l’autore del reato presupposto;

– L’Ente chiamato a rispondere ai sensi del D.Lgs. 231/01 può essere citato nel medesimo procedimento come responsabile civile ex art. 83 c.p.p.

Il caso in sintesi

Il GUP presso il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 c.p.p. e del D.Lgs. 231/01 nella parte in cui “non prevedono espressamente e non permettono che le persone offese e vittime del reato non possano chiedere direttamente alle persone giuridiche ed agli enti il risarcimento in via civile e nel processo penale nei loro confronti dei danni subiti e di cui le stesse persone giuridiche e gli enti siano chiamati a rispondere per il comportamento dei loro dipendenti“.

Il GUP aveva rigettato la richiesta di costituzione di parte civile nei confronti dell’Ente nel procedimento 231, dopo aver investito la Corte di giustizia europea della decisione in merito alla compatibilità della norma italiana alla “Direttiva Europea sulla tutela delle vittime da reato”.

Cliccare qui per il testo della sentenza Corte Cost. n.218/14

La Corte di giustizia europea, con decisione del 12 luglio 2012 aveva infatti affermato che la norma italiana è compatibile con il Diritto Europeo in quanto nulla osta “a che, nel contesto di un regime di responsabilità delle persone giuridiche come quello in discussione nel procedimento principale, la vittima del reato non possa chiedere il risarcimento dei danni direttamente causati allo stesso, nell’ambito del processo penale, alla persona giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato.

Il GUP, però, ha ritenuto di non poter accogliere neppure la richiesta di citazione dell’Ente come responsabile civile ex art. 83 c.p.p. sulla base dei seguenti passaggi logici:

– l’art. 83 c.p.p. escluderebbe la citazione quale responsabile civile di un soggetto coimputato nel medesimo procedimento penale;

– ciò costituirebbe una “garanzia” per l’imputato ed a norma dell’art. 35 D.Lgs. 231/01 tale disposizione relativa all’imputato si applicherebbe anche all’Ente;

–  pertanto, neppure nei confronti dell’Ente tratto a giudizio ex D.Lgs. 231/01 sarebbe ammissibile la citazione quale responsabile civile.

Escluse, quindi, sia la possibilità di costituirsi parte civile contro l’Ente, sia la possibilità di citarlo quale responsabile civile, la vittima del reato non potrebbe ottenere ristoro dei danni subiti da parte dell’Ente in alcun modo.

La decisione della Consulta

La Corte Costituzionale, oltre a dichiarare inammissibile la questione come proposta sotto vari profili, critica il ragionamento del Giudice rimettente, affermando che:

– l’art. 83 c.p.p. non esclude che possa essere citato un coimputato quale responsabile civile, ma tale citazione è ammissibile sotto condizione, producendo effetti solo nel caso in cui il coimputato citato sia prosciolto od ottenga sentenza di non luogo a procedere;

– tale norma non è posta a “garanzia” dell’imputato, ma per evitare che lo stesso soggetto sia chiamato a rispondere civilisticamente per il medesimo fatto sia come autore, che come responsabile civile per la condotta del coimputato;

comunque, l’Ente e l’autore del rato presupposto non possono qualificarsi “coimputati”.
Infatti, la Consulta evidenzia come “l’illecito ascrivibile all’ente costituisca una fattispecie complessa e non si identifichi con il reato commesso dalla persona fisica…, il quale è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità amministrativa, unitamente alla qualifica soggettiva della persona fisica, alle condizioni perchè della sua condotta debba essere ritenuto responsabile l’ente e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio di questo. Ma se l’illecito di cui l’ente è chiamato a rispondere ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 non coincide con il reato, l’ente e l’autore di questo non possono qualificarsi coimputati, essendo ad essi ascritti due illeciti strutturalmente diversi
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Cliccare qui per il testo della sentenza Corte Cost. n.218/14

 

Alleghiamo qui di seguito alcune delle più importanti pronunce giurisprudenziali che affrontano aspetti del procedimento e del processo ex D.Lgs. 231/01.

Si ritiene che tali provvedimenti siano di particolare utilità per orientare l’attività del difensore dell’ente, soprattutto nella delicatissima fase iniziale e cautelare.

La rappresentanza dell’ente nel procedimento e nel giudizio

Corte Cost. 249/11

Tribunale Torino – GIP – ordinanza 22.11.2013

Cass. Pen. Sez. VI 41398/09

Misure cautelari interdittive – Presupposti di applicazione, sospensione o revoca

Trib. Gorizia – GIP -ordinanza 22.7.2013

Cass. Pen. sez. VI 10903/2013

Cass. Pen. Sez. II 326/14

Cass. pen. Sez. VI 6248/12

Sequestro 231 conservativo e preventivo

Cass. pen. Sez. V 33765/13

Cass. Pen. Sez. VI 3635/14

Decadenza e Prescrizione

Cass. Pen. Sez. V 20060/13

Costituzione di Parte Civile avverso l’Ente e Costituzione di Parte Civile dell’Ente sottoposto a procedimento 231 nei confronti dell’autore del reato presupposto

Trib. Milano – GUP – ordinanza 11.6.10

Cass. Pen. Sez. VI 2251/11

 

 

 

Il D.Lgs. n. 39 del 4 marzo 2014 attuativo della Direttiva 2011/93/UE, all’art. 3, ha introdotto quale nuovo reato presupposto della responsabilità 231 l’adescamento di minori di cui all’art. 609 undecies c.p.
Tale reato è stato inserito in seno all’art. 25 quinquies D.Lgs. 231/01.

L’art. 12 della Direttiva Europea, infatti, disponeva quanto segue:

Responsabilità delle persone giuridiche

1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicu­rare che le persone giuridiche possano essere ritenute responsa­bili dei reati di cui agli articoli da 3 a 7 commessi a loro vantaggio da qualsiasi soggetto, a titolo individuale o in quanto membro di un organismo della persona giuridica, che detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica, basata su:
a) il potere di rappresentanza di detta persona giuridica;
b) il potere di adottare decisioni per conto della persona giuri­dica; oppure
c) l’autorità sull’esercizio del controllo in seno a tale persona giuridica.

2. Gli Stati membri adottano inoltre le misure necessarie per assicurare che le persone giuridiche possano essere ritenute re­sponsabili qualora la mancata sorveglianza o il mancato con­trollo da parte di un soggetto tra quelli di cui al paragrafo 1 abbiano reso possibile la commissione, a vantaggio della per­sona giuridica, dei reati di cui agli articoli da 3 a 7 da parte di una persona sottoposta all’autorità di tale soggetto.

3. La responsabilità delle persone giuridiche ai sensi dei pa­ragrafi 1 e 2 non pregiudica l’avvio di procedimenti penali contro le persone fisiche che abbiano commesso i reati di cui agli articoli da 3 a 7, che abbiano istigato qualcuno a commet­terli o che vi abbiano concorso.”

Il Parlamento europeo ha quindi previsto la necessità di introdurre tra i reati presupposto della responsabilità delle persone giuridiche i reati di abuso sessuale, sfruttamento sessuale, pornografia minorile, adescamento di minori per scopi sessuali, anche nelle forme dell’istigazione, favoreggiamento, concorso e tentativo.
L’art. 12 della Direttiva richiama dettagliatamente i criteri di responsabilità si cui agli artt. 5 e 7 D.Lgs. 231/01 in relazione alla posizione di apicale e sottoposto dell’autore del reato e rimarca il principio di autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica.

Si deve evidenziare che il Parlamento europeo indicava la necessità di prevedere la responsabilità delle persone giuridiche anche per le fattispecie indicate all’art. 3 della Direttiva, corrispondenti ai reati di cui all’art. 609 quater c.p. (Atti sessuali con minorenne) e 609 quinquies c.p. (Corruzione di minorenne).
Pur comprendendo la difficoltà di ipotizzare un interesse o vantaggio per l’ente in relazione a tali reati, resta il fatto che sul punto la direttiva non risulta attuata.

Prosegue senza soluzione di continuità l’intento legislativo europeo e nazionale volto ad ampliare il novero dei reati presupposto della 231, inserendo tra essi ogni fattispecie che venga all’attenzione del legislatore medesimo quale fattispecie di rilevante allarme sociale.

Cliccare qui per scaricare la Direttiva 2011_93_UE

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Con la recente sentenza n. 16359 depositata il 15.4.2014, la Corte di Cassazione, Sezione II Penale, è ritornata ad occuparsi del tema dell’interesse e vantaggio ai fini della Responsabilità D.Lgs. 231/01 collegato al reato di formazione fittizia del capitale ex art. 2632 c.c. mediante sopravvalutazione di partecipazioni azionarie.

La Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale di Bologna che ha confermato il sequestro di quasi 200 milioni di euro ai sensi degli artt. 19, 25ter e 53 D.Lgs. 231/01.
Già con sentenza n. 24557/2013 la Corte di Cassazione, Sez. VI Penale, si era pronunciata in merito annullando la precedente ordinanza del Tribunale di Bologna.

Il Tribunale di Bologna, adeguandosi da ultimo al dictum di tale precedente pronuncia della Cassazione, ha affermato che l’accertato incremento del capitale sociale, benchè fittizio, sarebbe stato realizzato anche nell’interesse ovvero a vantaggio della società, “poichè da quell’incremento era conseguito un aumento di affidabilità della medesima società nei confronti dei terzi ed una moltiplicazione del valore delle azioni, anche in conseguenza della diffusione di comunicati in ordine all’avvenuta capitalizzazione”.

La Corte di Cassazione, con la più recente sentenza ha ribadito il principio già espresso, confermando “che l’aumento fittizio di capitale costituì un’operazione effettuata nell’interesse della società, di cui questa si avvantaggiò e che, pertanto, il profitto che ne ricavò è confiscabile”.

cliccare qui per scaricare la Sentenza Cass. pen., Sez. II, n. 16359/2014

Con il Decreto Ministeriale n. 57 del 20.2.2014 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, pubblicato il 7.4.2014, si è finalmente concluso l’iter normativo e regolamentare iniziato dall’art. 5 ter del DL 1/2012 sul “Rating di legalità”.

Ricordiamo che con il D.L. 1/2012, come convertito con Legge 27/2012 e successivamente modificato, all’art. 5 ter, il legislatore ha attribuito all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato il compito di elaborare ed attribuire un “rating di legalità” per le imprese con un fatturato minimo di due milioni di euro, secondo criteri demandati ad apposito Regolamento dell’Autorità stessa.
Per norma, di tale “Rating di legalità si tiene conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario”.
L’importanza di tale Rating per l’accesso al credito bancario viene sottolineata dal medesimo art. 5 ter, laddove prevede che “gli istituti di credito che omettono di tener conto del rating attribuito in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta”.

Il 14 novembre 2012 è stato approvato il previsto Regolamento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con parere favorevole dei Ministeri di Giustizia e dell’Interno, al fine di dettare i criteri di attribuzione del “Rating di legalità”.
In tale Regolamento, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18.12.2012, è prevista quale requisito per l’attribuzione stessa del Rating, tra l’altro, l’assenza di condanne e di applicazione di misure cautelari di cui al D.Lgs. 231/01 (art. 2 co. 2 lett. c).
Secondo l’art. 3 del Regolamento, l’impresa vedrà incrementato il punteggio del “Rating di legalità” qualora abbia adottato “un modello organizzativo ai sensi del Decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”.
L’effetto è evidente: l’adozione del Modello 231 inciderà direttamente sul “rating di legalità” e di ciò dovrà essere tenuto conto sia in sede di finanziamenti pubblici che in sede di accesso al credito bancario.

Ciò che ancora mancava era l’intervento regolamentare ministeriale che definisse le modalità in base alle quali del “Rating di legalità” si sarebbe dovuto tener conto.
La risposta è finalmente arrivata con il DM 57/2014 recante il “Regolamento concernente l’individuazione delle modalità in base alle quali si tiene conto del rating di legalità attribuito alle imprese ai fini della concessione di finanziamenti da parte di pubbliche amministrazioni e di accesso al credito bancario…”.

Secondo l’art. 3 DM 57/2014 i “sistemi di premialità” previsti per le imprese in possesso del Rating nell’ambito dei finanziamenti pubblici sono, tra l’altro:
– preferenza in graduatoria;
– attribuzione di punteggio aggiuntivo;
– riserva di quota delle risorse finanziarie allocate.

Per l’accesso al credito bancario (art. 4 DM 57/2014) il Rating incide su:
– riduzione di tempi e costi per la concessione di finanziamenti;
– determinazione delle condizioni economiche di erogazione.

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Testo del Decreto Ministeriale 57/2014
Regolamento AGCM 14.11.2012
Testo dell’art. 5-ter DL 1/2012

Integrato il D.Lgs. 81/08 con il Titolo X-bis: “Protezione alle ferite da taglio e da punta nel settore ospedaliero e sanitario”

Dal 25 marzo 2014 gli obblighi per il Datore di Lavoro ed i Dirigenti delle strutture sanitarie private e pubbliche si ampliano.

In data 11 febbraio 2010 il Parlamento europeo “sulla proposta di direttiva del Consiglio che attua l’accordo quadro, concluso da HOSPEEM e FSESP, in materia di prevenzione delle ferite da taglio o da punta nel settore ospedaliero e sanitario” assumeva le seguenti decisioni “… 5.raccomanda la rapida adozione ed attuazione delle misure definite nella proposta di direttiva, in quanto i lavoratori in questione hanno già atteso oltre cinque anni prima che questo serio problema fosse portato all’attenzione della Commissione; 6. invita la Commissione ad elaborare e fornire orientamenti per accompagnare l’accordo e contribuire in tal modo alla sua corretta applicazione in tutti gli Stati membri; …”

La Direttiva europea 2010/32/Ue, in attuazione dell’Accordo quadro concluso da Hospeem e Fsesp in materia di prevenzione delle ferite da taglio o da punta nel settore ospedaliero e sanitario, disponeva “… Gli Stati membri pongono in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva …

Lo Stato italiano recepisce le previsioni della direttiva e vi da attuazione con il D.Lgs. 19 febbraio 2014, n. 19 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 10 marzo 2014) integrando il D.Lgs. 81/08 con il Titolo X-bis Protezione alle ferite da taglio e da punta nel settore ospedaliero e sanitario.

Il D.Lgs. entrerà in vigore il prossimo 25 marzo.

Le previsioni contenute in tale Titolo, che impongono al Datore di Lavoro di effettuare una specifica valutazione dei rischi su tali aspetti e predisporre le relative misure di prevenzione, si applicano a “…  tutti i lavoratori che operano, nei luoghi di lavoro interessati da attività sanitarie, alle dipendenze di un datore di lavoro, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, ivi compresi i tirocinanti, gli apprendisti, i lavoratori a tempo determinato, i lavoratori somministrati, gli studenti che seguono corsi di formazione sanitaria e i sub-fornitori

In caso di inosservanza degli obblighi sono previste sanzioni a carico del Datore di Lavoro e dei Dirigenti.

 

DECRETO LEGISLATIVO 19 febbraio 2014, n. 19
Attuazione della direttiva 2010/32/UE che attua l’accordo quadro, concluso da HOSPEEM e FSESP, in materia di prevenzione delle ferite da taglio o da punta nel settore ospedaliero e sanitario.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 10561 del 5.3.2014, investite della soluzione dei contrasti giurisprudenziali relativi alla possibilità di sequestro finalizzato alla confisca su beni della persona giuridica per reati tributari, si interrogano sull’assenza dei Reati Tributari stessi tra i reati presupposto della Responsabilità Amministrative degli Enti ex D.Lgs. 231/01.

Tale assenza, cui già in precedenza la giurisprudenza ha tentato di trovare correttivi dando ingresso all’applicazione del D.Lgs. 231/01 mediante la contestazione del reato di Associazione a delinquere ex art. 416 c.p. finalizzato alla commissione dei Reati Tributari ed altresì mediante l’applicazione della Legge 146/2006 sui reati associativi transnazionali (cfr. Cass. Pen. Sez. III n. 5869/11, Cass. Pen. Sez. III n. 11969/11 e Cass. Pen. Sez. III n. 24841/13), è stata ora fermamente criticata dalle Sezioni Unite che hanno affermato quanto segue:

Le Sezioni Unite sono consapevoli che la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di irrazionalità, oltre che per gli aspetti già segnalati nell’ordinanza di rimessione, anche perchè il mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rischia di vanificare le esigenze di tutela delle entrate tributarie, a difesa delle quali è stato introdotto la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143.

Infatti è possibile, attraverso l’intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o rendendo più difficile la possibilità di recupero di beni pari all’ammontare del profitto di reato, ove lo stesso sia stato occultato e non vi sia disponibilità di beni in capo agli autori del reato. Dovendosi anche sottolineare come la stessa logica che ha mosso il legislatore nell’introdurre la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti finisca per risultare non poco compromessa proprio dalla mancata previsione dei reati tributari tra i reati-presupposto nel d.lgs. n. 231 del 2001, considerato che, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a quei reati non può che aver operato proprio nell’interesse ed a vantaggio dell’ente medesimo.

Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale l’art. 25 Cost., comma 2, deve ritenersi ostativo all’adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244189).

Le Sezioni Unite non possono quindi che segnalare tali irrazionalità ed auspicare un intervento del legislatore, volto ad inserire i reati tributari fra quelli per i quali è configurabile responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231″.

cliccare qui per scaricare il testo completo della sentenza Cass. Pen. Sez. Un.n. 10561 del 5.3.2014

Con sentenza n. 10265 emessa dalla Sezione V della Corte di Cassazione Penale, pubblicata il 4.3.2014, la Suprema Corte affronta, nella prima parte della motivazione, il tema dell’interesse o vantaggio quali criteri alternativi di imputabilità dell’ente, in rapporto alla previsione di esclusione dalla responsabilità 231 nel caso in cui l’autore del reato abbia agito “nell’interesse esclusivo proprio o di terzi” (art. 5 co. 2 D.Lgs. 231/01).
Prosegue la Corte soffermandosi ampiamente sulla nozione di “profitto” confiscabile.

Ciò che qui più interessa, lasciando per il resto alla lettura della sentenza (qui scaricabile: Cass.Pen. sez. V n. 10265/14) è un passaggio intermedio della sentenza in cui la Suprema Corte afferma il principio secondo cui, benchè l’art. 25 ter D.Lgs. 231/01, relativo ai Reati Societari, preveda l’applicazione delle indicate sanzioni qualora tali reati siano “commessi nell’interesse della società”, senza in alcun modo menzionare il diverso criterio del “vantaggio”, ciò nonostante anche per i Reati Societari vanno applicati i distinti autonomi criteri dell’interesse o del vantaggio, quali presupposti alternativi per l’affermazione di responsabilità dell’ente.

Si riporta di seguito il percorso logico seguito sul punto nella sentenza:

“A completamento dell’interpretazione del contesto normativo di riferimento, è necessario affrontare una ulteriore questione, solo incidentalmente evocata nel ricorso alle pp. 6 e 7. Infatti la responsabilità amministrativa di Italease è stata ritenuta, nel caso di specie, anche in riferimento ai reati presupposto di ostacolo alla vigilanza (art. 2638 c.c.) e false comunicazioni sociali (art. 2622 c.c.), entrambi contemplati nel catalogo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 ter. Tale ultima disposizione, peraltro, a differenza del già citato comma 1 dell’art. 5, menziona il solo “interesse” quale criterio ascrittivo dell’illecito, scelta che potrebbe rivelare l’apparente intenzione legislativa di ridimensionare l’area della responsabilità dei soggetti collettivi in relazione ai reati societari. Ad una analisi più attenta, però, la disposizione non tarda a smentire ogni effettiva volontà di ripensamento strutturale dell’illecito nel caso questo consegua alla consumazione di un reato societario. Piuttosto sembra valere da indizio sistematico, in uno con la previsione del comma 2 dell’art. 5, alla comprensione dei due termini (interesse e vantaggio) come concettualmente autonomi e non di meno equivalenti espressivi di una funzionalità del comportamento criminoso individuale rispetto all’ottenimento di un risultato che avvantaggi l’attività sociale, nella quale, del resto, si trova racchiusa l’unica prospettiva di “interesse” concepibile in capo ad un soggetto giuridicamente organizzato.

L’art. 25 ter, infatti, è stato introdotto dalla riforma del diritto penale societario realizzata attraverso il D.Lgs. n. 61 del 2002, la cui Relazione, a proposito della disposizione in esame, espressamente precisa come la responsabilità degli enti collettivi per i reati societari sia stata configurata “nel rispetto dei principii contenuti nella L. 29 settembre 2000, n. 300 e nel D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231”, ribadendo in tal modo l’identica direttiva contenuta nella legge delega del D.Lgs. n. 61 del 2002 (L. n. 366 del 2001, art. 11). E sì vero che proprio la legge delega per prima ha poi menzionato esclusivamente l’interesse per descrivere il contesto imputativo dell’illecito, ma proprio la premessa da cui il legislatore delegante ha preso le mosse evidenzia l’assenza della volontà di configurare all’interno del D.Lgs. n. 231 del 2001 una sorta di sottosistema dedicato alla responsabilità da reato societario governato da regole autonome rispetto a quelle dettate nella parte generale del decreto.

E’ possibile quindi concludere ribadendo che la formulazione dell’art. 25 ter opera più apparentemente che sostanzialmente un allontanamento dai criteri di imputazione generale previsti dalla disciplina del D.Lgs. n. 231 del 2001, criteri che pertanto trovano applicazione anche in ambito societario, nonostante la dubbia tecnica di redazione del testo di legge”.