La recente determinazione ANAC n. 8 concernente Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici, merita una approfondita lettura ed uno studio specifico rapportati a ciascuna tipologia di enti e società partecipate. Infatti sono previste modalità di adempimento diverse per “società in controllo pubblico e società a partecipazione pubblica non di controllo”, “altri enti di diritto privato in controllo pubblico e altri enti di diritto privato partecipati” ed “enti pubblici economici”.

Con specifico riferimento alle società partecipate, molte sono le considerazioni e le riflessioni che tale Determinazione porta a fare in merito al rapporto esistente tra Modelli 231 ed adempimenti anticorruzione.

Qui si vogliono evidenziare alcuni punti importanti ed alcune questione spinose su cui la determinazione ANAC, fa chiarezza confermando o parzialmente modificando quanto previsto nel precedente Piano Nazionale Anticorruzione (P.N.A.) emanato nel 2013. Contenuti del Piano che per espressa previsione dell’ANAC vengono integrati e sostituiti lì dove non compatibili con la Determinazione.

Risulta di interesse quanto la determinazione chiarisce ed innova in tema di O.d.V.

Molti di noi professionisti, nel ricoprire il ruolo di componente di O.d.V. in società partecipate, vigente il P.N.A. del 2013, si sono sentiti chiedere di ricoprire il ruolo di Responsabile della prevenzione della corruzione e Responsabile della trasparenza.

Ora l’indicazione in merito è cambiata ed il ruolo riconosciuto all’O.d.V. è riferito al momento di predisposizione delle misure di prevenzione della corruzione che “… sono elaborate dal Responsabile della prevenzione della corruzione in stretto coordinamento con l’Organismo di Vigilanza”.

Infatti la Determinazione ANAC fornisce precise indicazioni per l’individuazione del soggetto che può ricoprire il ruolo di Responsabile della prevenzione della corruzione, che deve essere un soggetto interno alla società da individuarsi con preferenza, lì dove possibile in base all’assetto organizzativo della società stessa, in un dirigente.

Resta di tutta evidenza che l’O.d.V., visto il ruolo che avranno il Modello ed i suoi protocolli nell’ottica di prevenzione della corruzione, dovrà interfacciarsi con il Responsabile ed averlo come interlocutore preferenziale nell’ambito della vigilanza sull’attuazione dei protocolli di competenza.

Utile sarà prevedere che il Responsabile della prevenzione della corruzione invii la Relazione annuale anche all’O.d.V. per lo svolgimento ed il miglioramento delle attività di competenza.

Eventuali ed ulteriori valutazioni ci si riserva di farle all’esito della pubblicazione, avvenuta il 28 ottobre 2015, dell’Aggiornamento del Piano Nazionale Anticorruzione che fornisce precise indicazioni operative, reperibile al link http://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/Comunicazione/ComunicatiStampa/_comunicati?id=c91648f20a778042504534e46e8fa04c

Aggiornamento del P.N.A. che comunque, in merito alla scelta del Responsabile, richiama integralmente quanto riportato nella Determinazione ANAC n. 8, fornendo solo alcune precisazioni per favorire l’individuazione di tale soggetto (si veda pag. 11).

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Le origini della “Delega di funzioni” ed i requisiti enucleati dalla giurisprudenza

L’istituto della “delega di funzioni”, come noto, ha origine giurisprudenziale e nasce dalla constatazione fattuale che nell’ambito di un’attività d’impresa e della sua organizzazione, a volte estesa e complessa, gli Amministratori si trovano spesso in condizioni di dover delegare a soggetti della propria struttura il compito di attendere a specifiche aree di attività, curando il rispetto degli obblighi normativi ad esse connessi.

La giurisprudenza, in ragione di tale constatazione, ha negli anni riconosciuto la possibilità di trasferire ad un delegato, unitamente a compiti e funzioni, le relative responsabilità penali sollevando da esse il vertice dell’impresa, che è di norma titolare di una “primaria posizione di garanzia” per tutto quanto avviene nello svolgimento delle attività imprenditoriali.

La Suprema Corte ha quindi enucleato, con orientamento divenuto costante, i requisiti a fronte dei quali una “Delega di funzioni” produce l’effetto di trasferire le responsabilità penali dal delegante al delegato, requisiti che l’atto di delega deve quindi possedere per avere una siffatta rilevanza in sede penale.

In sintesi, tali requisiti sono, o meglio erano sino ad oggi, i seguenti:
a) la delega deve essere puntuale, chiara ed espressa, senza che siano trattenuti in capo al delegante poteri residuali di tipo discrezionale;
b) il soggetto delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli;
c) il trasferimento delle funzioni deve essere giustificato in base alle esigenze organizzative dell’impresa;
d) unitamente alle funzioni debbono essere trasferiti i correlativi poteri decisionali, di intervento e di spesa;
e) l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo;
f) la delega deve essere liberamente ed espressamente accettata dal delegato.

In proposito, si indicano a titolo esemplificativo le seguenti pronunce, che hanno con chiarezza enunciato gli indicati requisiti: Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 30-05-2012) 27-06-2012, n. 25359, Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 13-07-2011) 27-07-2011, n. 29988, Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 19-01-2011) 23-02-2011, n. 6872.

 

Il recepimento normativo della “Delega di funzioni” nell’art. 16 D.Lgs. 81/08 – Effetti della scelta legislativa

Il primo, ed attualmente unico, recepimento normativo di tale percorso giurisprudenziale è avvenuto in materia di Salute e sicurezza sul lavoro, con l’art. 16 D.Lgs. 81/08.
In tale articolo il legislatore ha espressamente codificato i limiti e le condizioni della “Delega di funzioni”, evidenziando come sia necessario
a) che essa risulti da atto scritto recante data certa;
b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate;
d) che essa attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate;
e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.
Il legislatore non ha, invece, inteso sancire l’ulteriore requisito elaborato in ambito giudiziale penale, consistente nella necessità che la delega sia giustificata in ragione di concrete esigenze organizzative e dimensionali.

Ci si è dunque interrogati se, in materia di Delega per la sicurezza sul lavoro, dopo l’avvento del D.Lgs. 81/2008, si dovesse o meno ancora ancorare l’efficacia della delega sul piano della responsabilità penale al requisito della sua necessità per ragioni dimensionali o organizzative.
Una prima risposta a tale interrogativo, pur formulata in termini non certi e ben lontana dall’assurgere a principio di diritto, poteva ricavarsi da un breve inciso contenuto nella nota pronuncia delle Sezioni Unite nel caso ThyssenKrupp.
In un passaggio di tale sentenza si legge, infatti: “La delega ha senso se il delegante (perché non sa, perché non può, perché non vuole agire personalmente) trasferisce incombenze proprie ad altri, cui attribuisce effettivamente i pertinenti poteri”.

Pur rimanendo il dubbio che tale inciso potesse essere mero frutto di una non voluta formulazione dialettica, non può certo non rilevarsi come lo stesso, nel suo tenore letterale, arrivi a giustificare e legittimare una “Delega di funzioni” fondata su di una mera scelta volontaria, indipendente da ragioni che ne impongano la necessità… la delega dunque avrebbe senso anche se il delegante la conferisse semplicemente “perchè non vuole agire personalmente”.

Ad esplicitare in maniera inequivoca il venir meno del requisito della necessità della “Delega di funzioni”, quale requisito di validità della stessa, è ora intervenuta la Sentenza Cass. Pen. Sez. III n. 27862 del 2.7.2015.
In tale pronuncia, innanzitutto, si legge: “L’attuale art. 16 del citato T.U. non contempla più tra i requisiti richiesti per attribuire efficacia all’atto di delega proprio quello della sua «necessità», essendo oggi pacificamente ammissibile in campo prevenzionistico l’attribuzione delle funzioni delegate anche in realtà di modesta entità organizzativa… il cd. requisito dimensionale, per espressa volontà legislativa… non costituisce più condizione o requisito di efficacia di una delega di funzioni“.

Ma la pronuncia in esame non si limita a questo, bensì estende gli effetti della scelta legislativa contenuta nell’art. 16 D.Lgs. 81/08 anche al di fuori dell’ambito che gli è proprio della sicurezza sul lavoro, per fare del venir meno del requisito della necessità della delega un principio generale, applicabile, nel caso di specie, anche alla materia ambientale: “il necessario rispetto del principio di non contraddizione… impone di rivisitare l’orientamento di legittimità formatosi con riferimento alla materia ambientale e ritenere, pertanto, non necessario anche in tale settore… il requisito della necessità della delega”.

La Suprema Corte, nella citata sentenza, afferma dunque il seguente principio di diritto: “In materia ambientale, per attribuirsi rilevanza penale all’istituto della delega di funzioni, tra i requisiti di cui è necessaria la compresenza non è più richiesto che il trasferimento delle funzioni delegate debba essere giustificato in base alle dimensioni dell’impresa o, quantomeno, alle esigenze organizzative della stessa”.

 

Possibili sviluppi interpretativi legati all’adozione ed attuazione del Modello di Organizzazione e Gestione 231

Si ritiene utile evidenziare come, secondo la costante opinione giurisprudenziale, una volta verificata la validità formale della delega, il conseguente effetto di trasferimento della responsabilità penale dal delegante al delegato, con liberazione del primo, sconta un’ulteriore limite:

il dovere del delegante di vigilare poi sul corretto esercizio della delega da parte del delegato.

In proposito, l’art. 16 co. 3 D.Lgs. 81/08, nel secondo periodo introdotto dal D.Lgs. 106/2009, prevede che tale obbligo di vigilanza “si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4”, quindi in caso di adozione ed attuazione di un Modello 231 con i requisiti richiesti dall’art. 30 D.Lgs. 81/08.

Il Legislatore ha quindi introdotto una presunzione di assolvimento dell’obbligo di vigilanza del delegante sul delegato connessa al Modello 231, obbligo la cui osservanza presenta spesso non poche difficoltà di prova.

Si tratta di un importantissimo riconoscimento normativo, che costituisce un altrettanto significativo sollecito all’adozione ed attuazione di tali Modelli, riconnettendosi ad essi l’effetto di determinare con maggior certezza lo spoglio da responsabilità penali del Datore di Lavoro in relazione alle funzioni delegate.

Ma una simile presunzione di “avvenuta vigilanza” determinata dall’esistenza ed operatività del Modello 231 non costituisce una novità nel nostro ordinamento, essendo già insita nel disposto di cui all’art. 7 D.Lgs. 231/01.
Tale ultima norma, infatti, in relazione alla Responsabilità amministrativa degli enti per reati commessi da soggetti sottoposti, dispone:
“1. Nel caso previsto dall’articolo 5, comma 1, lettera b), l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.
2. In ogni caso, è esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.”

E’ dunque evidente che il Legislatore ha voluto, in diverse occasione e nell’ambito di diversi sistemi normativi, riconoscere al Modello 231 l’efficacia di costituire prova e presunzione dell’operatività concreta di misure di vigilanza e controllo in seno ad un’organizzazione imprenditoriale.

Se si considera quanto sopra e si prende in debita considerazione la pronuncia della Suprema Corte in commento, che ha inteso elevare il dettato dell’art. 16 D.Lgs. 81/08 a principio generale, valevole anche al di fuori dell’ambito prevenzionistico, appare a noi lecito supporre che ciò valga anche in relazione alla possibilità di sfruttare il Modello 231 quale prova di ottemperanza del dovere di vigilanza del delegante sul delegato, qualsiasi sia l’ambito delle funzioni oggetto della delega.

Cliccare qui per il testo della Sentenza Cass. Pen. Sez. III n. 27862 del 2015.

Con la Determinazione n. 8 del 17.6.2015 l’ANAC ha emanato le «Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici».

Dopo anni di incertezza in merito ai confini della corretta applicazione delle norme per l’anticorruzione e trasparenza nelle società ed enti di diritto privato controllati e partecipati, arriva dall’ANAC una risposta chiara ed inequivocabile che non lascia più adito a dubbi e che impone l’adeguamento ai relativi obblighi, diversamente calibrati in ragione della posizione di controllo o mera partecipazione da parte delle Pubbliche amministrazioni, con scadenze che vanno dal tempestivo adempimento degli obblighi di pubblicazione ai fini della trasparenza di cui al D.Lgs. 33/2013, all’adozione delle misure di organizzazione e gestione per la prevenzione della corruzione ex lege n. 190/2012 che «dovrà comunque avvenire entro il 31 gennaio 2016».

Per quanto qui interessa, si deve rilevare che già nel 2013 il Piano Nazionale Anticorruzione aveva espresso il principio per il quale, nell’ambito degli enti pubblici economici e degli enti di diritto privato «Per evitare inutili ridondanze qualora questi enti adottino già modelli di organizzazione e gestione del rischio sulla base del d.lgs. n. 231 del 2001 nella propria azione di prevenzione della corruzione possono fare perno su essi, ma estendendone l’ambito di applicazione non solo ai reati contro la pubblica amministrazione previsti dalla l. n. 231 del 2001 ma anche a tutti quelli considerati nella l. n. 190 del 2012 , dal lato attivo e passivo, anche in relazione al tipo di attività svolto dall’ente (società strumentali/società di interesse generale)».

Quella che in allora era una mera possibilità, ancorata all’eventuale presenza dei Modelli di organizzazione e gestione ex D.Lgs. 231/01, diventa ora nelle parole della Determinazione n. 8 del 2015 un chiaro indirizzo, rivolto non solo a società ed enti controllati o partecipati, ma prima ancora alle Pubbliche amministrazioni controllanti e partecipanti.

Si legge infatti, con recapito alle società direttamente o indirettamente controllate dalla Pubblica amministrazione: «Le presenti Linee guida muovono dal presupposto fondamentale che le amministrazioni controllanti debbano assicurare l’adozione del modello di organizzazione e gestione previsto dal d.lgs. n. 231/2001 da parte delle società controllate».
Prosegue la Determinazione indicando che «in una logica di coordinamento delle misure e di semplificazione degli adempimenti, le società integrano il modello di organizzazione e gestione ex d.lgs. n. 231 del 2001 con misure idonee a prevenire anche i fenomeni di corruzione e di illegalità all’interno delle società in coerenza con le finalità della legge n. 190 del 2012. Queste misure devono fare riferimento a tutte le attività svolte dalla società ed è necessario siano ricondotte in un documento unitario che tiene luogo del Piano di prevenzione della corruzione anche ai fini della valutazione dell’aggiornamento annuale e della vigilanza dell’A.N.AC. Se riunite in un unico documento con quelle adottate in attuazione del d.lgs. n. 231/2001, dette misure sono collocate in una sezione apposita e dunque chiaramente identificabili tenuto conto che ad esse sono correlate forme di gestione e responsabilità differenti».

Ove si verta in ipotesi di altri enti di diritto privato controllati, diversi dalle società, poco cambia, in quanto secondo l’ANAC «Le amministrazioni controllanti assicurano, quindi, l’adozione del modello previsto dal d.lgs. n. 231/2001 da integrare con le misure organizzative e di gestione per la prevenzione della corruzione ex lege n. 190/2012».

Nell’ottica del diverso trattamento riservato dall’ANAC, alla luce del minor grado di controllo che l’amministrazione esercita, le società e gli enti meramente partecipati dalla Pubblica amministrazione sono soggetti a minori oneri, anche sotto l’aspetto che qui ci occupa. In relazione a tali società ed enti, infatti, il dovere delle Pubbliche amministrazioni di assicurare l’adozione dei Modelli 231 si riduce alla richiesta che esse se ne facciano promotrici, permanendo comunque chiara la volontà di indirizzo dell’ANAC.

Quanto alle società partecipate «Le amministrazioni partecipanti promuovono l’adozione del modello di organizzazione e gestione ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 nelle società a cui partecipano», e nell’ambito degli altri enti di diritto privato partecipati «E’ anche compito delle amministrazioni che a vario titolo vi partecipano, promuovere, da parte di questi soggetti, l’adozione di modelli come quello previsto nel d.lgs. n. 231 del 2001, laddove ciò sia compatibile con la dimensione organizzativa degli stessi».

Fatte tali ripetute inequivocabili premesse, l’ANAC individua le misure minime da adottare per il contrasto alla corruzione e per l’adempimento degli obblighi di trasparenza con un costante richiamo e coordinamento con i Modelli ex D.Lgs. 231/01.

L’assenza di tali Modelli 231, pur prevista con conseguente obbligo di adottare le misure preventive in autonomi Piani, viene dall’ANAC ricondotta in più parti della Determinazione ad una mera «ipotesi residuale».

Cliccare qui per scaricare il testo della Determinazione ANAC n. 8 del 17.6.2015
Cliccare qui per scaricare l’Allegato alla Determinazione

2382
Seminario organizzato da EUROCONFERENCE

CORPO DOCENTE:
Avv. Anna Di Lorenzo e Avv. Alberto Tenca

PROGRAMMA:

INQUADRAMENTO DELLA NORMATIVA 231/01
•   Criteri soggettivi e oggettivi d’imputazione della responsabilità
•   Interesse o vantaggio per l’Ente
•   Reati presupposto e le recenti novità (autoriciclaggio, false comunicazioni
sociali, reati ambientali)
•   Il ruolo del Modello nella difesa dell’Ente
•   Utilità del Modello sul piano fiscale

ASSETTO SOCIETARIO E RIFLESSI SUL MODELLO 231
•   Deleghe organiche e di funzioni: peculiarità, condizioni di validità ed efficacia 
•   Rilevanza delle funzioni e mansioni di fatto
•   Organi di controllo della Società

COME STRUTTURARE IL MODELLO 231
Tecniche di analisi e valutazione dei rischi reato presupposto

•   Informazioni necessarie per lo svolgimento dell’analisi
•   Come reperire le informazioni (documenti, interviste, check list)
•   Individuazione ed analisi dei processi sensibili
•   Come effettuare la mappatura del rischio reato
•   Discussione critica delle diverse tecniche dell’analisi

I protocolli di prevenzione: caratteristiche e suggerimenti operativi di redazione
•   Individuazione dei soggetti coinvolti nel Modello e contenuti
•   Tecniche di redazione dei protocolli di prevenzione
•   Previsione di flussi informativi verso l’Organismo di Vigilanza
•   Le procedure dei sistemi di certificazione in rapporto ai protocolli del Modello

Protocolli specifici per la prevenzione dei reati in materia di sicurezza sul lavoro 
•   Le indicazioni dell’art. 30 D.Lgs. 81/08
•   Standard minimi per le PMI (D.M. 13.2.2014)
•   Individuazione dei soggetti e contenuti

Protocolli specifici per la prevenzione
•   Protocolli  per  la  prevenzione  dell’autoriciclaggio:  questioni  discusse  e
possibili soluzioni
•   False comunicazioni sociali e protocolli specifici
•   Protocolli per la gestione delle risorse finanziarie
•   Protocolli per la gestione di acquisti e vendite
•   Disamina di misure di prevenzione in materia ambientale

COME DARE PIENA OPERATIVITA’ ED EFFICACE ATTUAZIONE AL MODELLO
Elementi normativi ed accorgimenti pratici

•   Individuazione e nomina dell’OdV
•   Impostazione dell’attività informativa e formativa
•   Come strutturare il sistema disciplinare e iter sanzionatorio
•   Monitoraggio e aggiornamento del Modello

MISURE PER LA PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE E MODELLO 231 
•   Determinazione ANAC n. 8 del 17.6.2015

 

SEDI E DATE:

PADOVA
Hotel Biri
16 e 17 ottobre 2015

MILANO
Hotel Michelangelo
29 e 30 ottobre 2015

ROMA
Centro Congressi Cavour
13 e 14 novembre 2015

BOLOGNA
AC Hotel Bologna
20 e 21 novembre 2015

FIRENZE
Hotel Londra
3 e 4 dicembre 2015

VERONA
DB Hotel
17 e 18 dicembre 2015

Per ulteriori informazioni cliccare qui

Le Sezioni Unite della Cassazione Penale si sono pronunciate su vari importanti aspetti che concernono il rapporto tra procedura fallimentare e processo 231, partendo dal seguente quesito:

“Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 19, comma 2, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest’ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia)”.

IL FALLIMENTO NON ESTINGUE L’ILLECITO 231

Un primo principio espresso nella motivazione della sentenza non costituisce una novità, ma sancisce quanto già affermato dalla giurisprudenza:
“Deve escludersi che il fallimento della società determini l’estinzione dell’illecito previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001,… rilevato che il fallimento non è normativamente previsto quale causa estintiva dell’illecito dell’ente e non è possibile assimilare il fallimento della società alla morte del reo perchè una società in stato di dissesto, per la quale si apra la procedura fallimentare, non può dirsi estinta, tanto è vero che il curatore ha esclusivamente poteri di gestione del patrimonio al fine di evitare il depauperamento dello stesso e garantire la par condicio creditorum mentre la proprietà del patrimonio compete ancora alla società”.

LA CONFISCA 231 E’ SEMPRE OBBLIGATORIA E I DIRITTI DEI TERZI IN BUONA FEDE SONO SALVI ANCHE NELLA CONFISCA PER EQUIVALENTE

Quanto alla confisca ex art. 19, co. 1 e 2 D.Lgs. 231/01, le Sezioni Unite affermano i seguenti principi:
1) “L’applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto del reato prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, commi 1 e 2, non è lasciata alla discrezionalità del giudice, ma è obbligatoria”… “sotto il profilo lessicale il termine “può”, come è già stato posto in evidenza, segnala, non la facoltatività o la discrezionalità, ma il carattere eventuale della confisca per equivalente in relazione alla non scontata sussistenza dei due presupposti attinenti alla impossibilità di procedere alla confisca diretta del profitto ed alla necessità di individuare altri beni appartenenti all’ente responsabile”.

2) La clausola di salvaguardia del comma 1 dell’art. 19 “Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede” si riferisce anche alla confisca per equivalente. Si legge infatti nella sentenza: “La clausola di salvaguardia non è ripetuta nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, ma è fuori contestazione che essa si riferisca anche al sequestro di valore perchè con il secondo comma si estende soltanto la possibilità di confisca di danaro e beni di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato, fermi restando, quindi, i limiti fissati dal comma 1 dello stesso articolo”.

IL SEQUESTRO 231 E LA PROCEDURA CONCORSUALE POSSONO COESISTERE

Venendo al quesito iniziale, la Sentenza sancisce la possibile coesistenza del sequestro finalizzato alla confisca ex D.Lgs. 231/01 con i vincoli sui beni derivanti dalla procedura concorsuale:
Orbene i due vincoli possono coesistere e, se correttamente interpretato il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, l’uno non ostacola l’altro, anzi, sotto certi profili, si può dire che il sequestro prima e la confisca poi tutelano in misura rafforzata gli interessi del ceto creditorio”.

IL CURATORE NON E’ LEGITTIMATO AD IMPUGNARE IL SEQUESTRO 231

Secondo le Sezioni Unite: “il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19“.
Ciò in quanto: “il curatore… non può essere considerato come un soggetto privato che agisca in rappresentanza o sostituzione del fallito e/o dei singoli creditori o del comitato dei creditori, ma deve essere visto come organo che svolge una funzione pubblica ed affianca il tribunale ed il giudice delegato per il perseguimento degli interessi dinanzi indicati” ed ancora “Il curatore… è un soggetto gravato da un munus pubblico, di carattere prevalentemente gestionale, che affianca il giudice delegato al fallimento ed il tribunale per consentire il perseguimento degli obiettivi, già indicati, propri della procedura fallimentare”

Se ne deve dedurre una ulteriore logica conseguenza che sarebbe stato bene fosse chiarita in modo espresso e cioè che, come già affermato in dottrina, in caso di fallimento l’ente non sta in giudizio 231 in persona del curatore, ma degli organi sociali che ne avevano la legale rappresentanza e che rimangono in carica per il compimento degli atti non vietati dalla procedura fallimentare.
Tale questione specifica era rimasta aperta e non risolta già in seno alla sentenza Cass. Pen. Sez. V n. 44824 del 2012, ove si legge soltanto che “la questione circa l’individuazione del soggetto legittimato a stare in giudizio nel processo di responsabilità amministrativa dell’ente è una questione processuale da risolvere nel processo…” .

LA COMPETENZA A DECIDERE SE IL DIRITTO DI UN TERZO PREVALGA SULLA CONFISCA 231 E’ DEL GIUDICE PENALE E NON DI QUELLO FALLIMENTARE

Le Sezioni Unite affermano il seguente principio: “La verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare“, chiarendo che “Quando, però, sia stata pronunciata sentenza definitiva di condanna dell’ente e sia stata disposta la confisca dei beni appartenenti allo stesso, il giudice competente a decidere sulla istanza del terzo non potrà che essere il giudice dell’esecuzione penale, che, ai sensi dell’art. 665 c.p.p. e ss., è chiamato a risolvere, su istanza delle parti interessate, tutte le questioni che attengono alla esecuzione dei provvedimenti giudiziari definitivi”.

I BENI SOTTOPOSTI A SEQUESTRO 231 POSSONO ESSERE VENDUTI IN SENO ALLA PROCEDURA FALLIMENTARE?

Fino a qui i principi espressi dalle Sezioni Unite appaiono chiari, ma laddove la sentenza in esame affronta i meccanismi di coesistenza del sequestro 231 e della procedura concorsuale nascono alcune perplessità di non pacifica soluzione.

Secondo le Sezioni Unite, tale coesistenza di vincoli non determinerebbe alcun pregiudizio in quanto “se venga disposta la confisca dei beni in pendenza di una procedura fallimentare sugli stessi, lo Stato potrà insinuarsi nel fallimento per far valere il proprio diritto, che sarà soddisfatto dopo che siano stati salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede” ed, in altro passaggio argomentativo, “lo Stato, come si è posto in evidenza, potrà far valere il suo diritto sui beni sottoposti a vincolo fallimentare, salvaguardando i diritti riconosciuti ai creditori, soltanto a conclusione della procedura“. Ciò secondo la Suprema Corte potrà avvenire “soltanto alla fine della procedura” quando “si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere alla assegnazione dei beni ai creditori” in quanto “è soltanto in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate“.

Dunque, si evidenzia che i terzi creditori potranno far valere avanti il Giudice Penale i propri diritti su quanto sequestrato o confiscato solo dopo la vendita fallimentare dei beni stessi, che dovrebbe dunque essere autorizzata e disposta in pendenza del sequestro ai fini della confisca 231. Ma ciò non è sicuramente previsto dall’art. 53 D.Lgs. 231/01, che prevede solo la possibilità di utilizzo e gestione dei beni sequestrati per garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, anche, secondo le Sezioni Unite, da parte del Curatore.

Ad alimentare le nostre perplessità è anche quanto affermato con Ordinanza della Cass. Pen. Sez.III n. 12639/2013: “Secondo la giurisprudenza di questa Corte anche a sezioni unite – alla quale si intende senz’altro prestare adesione – il sequestro avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura fallimentare. La valutazione che viene richiesta ai giudice della cautela reale sulla pericolosità della cosa non contiene margini di discrezionalità, in quanto la res è considerata pericolosa in base ad una presunzione assoluta: la legge vuole escludere che il bene sia rimesso in circolazione, sia pure attraverso l’espropriazione del reo, sicchè non può consentirsi che il bene stesso, restituito all’ufficio fallimentare, possa essere venduto medio tempore e il ricavato distribuito ai creditori”.

Ma se i beni sequestrati a fini di confisca non possono essere venduti e solo dopo la vendita e l’approvazione del piano di riparto i terzi “potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate”, quid iuris?

Cliccare qui per il testo della Sentenza Cass. Pen. Sez. Unite 11170/2015

Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca

Il tema sempre vivo della 231 e l’interesse del legislatore al continuo ampliamento delle fattispecie di reati presupposto si rileva dalla lettura delle leggi promulgate a maggio, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.

La Legge 22 maggio 2015 n. 68 ha introdotto nuove fattispecie di reato presupposto quali Inquinamento ambientale, Disastro ambientale nella fattispecie colposa e dolosa, e Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività che dovranno essere prese in considerazione al fine di verificare, in ciascun specifico ente secondo l’attività svolta e l’organizzazione in atto, il livello di esposizione a tali rischi reato presupposto e se e con quali modalità i protocolli di prevenzione vadano integrati ovvero aggiornati.
Si evidenzia che tra i reati presupposto vi è anche l’art. 452octies. Con tale previsione il legislatore intende espressamente colpire gli enti aventi una politica d’impresa volta a favorire i reati associativi, anche di stampo mafioso, aventi come scopo la commissione “dei delitti contro l’ambiente” contemplati dal Titolo VI-bis del Libro secondo del Codice Penale.

Secondo la L. 27 maggio 2015, n. 69, il prossimo 14 giugno 2015 entrerà in vigora il novellato art. 25ter relativo ai reati societari.
Sottolineiamo che è la prima volta che il legislatore interviene nel modificare il corpus del D.Lgs. 231/01 con riferimento ai criteri di imputazione. Sino ad ora infatti l’unica modifica ha riguardato l’art. 6 co. 4 bis che ha introdotto la possibilità di affidare le funzioni di Organismo di Vigilanza al Collegio sindacale e ad altri Organi di controllo indicati, modifica concernente elementi relativi all’esimente dalla responsabilità 231.
In questi ultimi anni spesso si è parlato della necessità di uniformare i criteri di imputazione della responsabilità 231 non facendo distinzioni nella tipologia di reati presupposto. In particolare si discuteva della previsione contenuta al comma 1 dell’art. 25ter in cui il legislatore, discostandosi dai criteri di imputazione previsti all’art. 5 effettuava una previsione ad hoc per i reati societari. In particolare non si contemplava il requisito del ‘vantaggio’, aspetto peraltro già risolto in giurisprudenza (sul punto si veda Cass. Pen. sez. V sent. 4.3.2014, n. 10265)  e non veniva espressamente  prevista la figura dell’ ‘amministratore di fatto’ con evidenti implicazioni e problematiche in sede di contestazione degli illeciti.
Tali questioni hanno trovato accoglimento nell’art. 12, comma 1, lett. a), L. 27 maggio 2015, n. 69 che novellando l’art. 25ter ha abrogato tale previsione (“In relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, se commessi nell’interesse della società, da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza, qualora il fatto non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica …”).
Pertanto d’ora innanzi i criteri soggettivi ed oggettivi che i magistrati dovranno considerare per l’imputazione della responsabilità amministrativa 231 di società, associazioni ed enti saranno esclusivamente quelli contemplati al comma 1 dell’art. 5 D.Lgs. 231/01:
L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a)  da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b)  da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)
”.
Evidenziamo che le novità relative all’art. 25 ter riguardano anche la modifica delle lett. a) e b) del comma 1 con riferimento all’aumento delle sanzioni pecuniarie e l’introduzione delle fattispecie contemplate all’art. 2621 bis (Fatti di lieve entità) tra i reati presupposto.

Si allega il testo aggiornato del D.Lgs. 231/01.

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La Sentenza della Sesta Sezione della Suprema Corte n. 18257 del 30.4.2015 affronta sotto un nuovo aspetto il peculiare istituto della “prescrizione” degli illeciti ex D.Lgs. 231/01.

Tale istituto rappresenta indubbiamente un elemento di anomalia nel complesso sistema punitivo delineato dal D.Lgs. 231/01, sia laddove alla “prescrizione” si affianca il diverso istituto della “decadenza dalla contestazione” di cui all’art. 60 del Decreto stesso, sia nell’individuazione degli effetti interruttivi della prescrizione connessi all’atto di contestazione dell’illecito secondo l’art. 22.

La citata anomalia consiste nella introduzione di principi analogicamente tratti da norme processuali di diritto civile in seno alla disciplina di una responsabilità pacificamente riconosciuta dalla Suprema Corte come di matrice penale.

Che la Responsabilità Amministrativa 231 ed il sistema punitivo delineato dal D.Lgs. 231/01 siano di natura penalistica, al di là dell’espresso richiamo alle norme del codice di procedura penale di cui all’art. 34, è un principio affermato da numerosissime pronunce della Corte di Cassazione, che ne traggono le dovute conseguenze.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla Sentenza n. 10561 del 5.3.2014 con la quale le Sezioni Unite, dopo aver affermato l’irrazionalità dell’assenza dei reati tributari tra i reati presupposto della Responsabilità 231, concludono evidenziando che “Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale l’art. 25 Cost., comma 2, deve ritenersi ostativo all’adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore”.

Ebbene, nell’alveo di un siffatto sistema punitivo penalistico, ove si affronta l’istituto della prescrizione delle sanzioni si attinge invece a principi di diritto  civile, ed infatti l’art. 22 D.Lgs. 231/01 dispone:
“1.  Le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato.
2.  Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59
4.  Se l’interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio“.

E’ evidente l’estraneità di tale effetto sospensivo della prescrizione sino al passaggio in giudicato della sentenza, rispetto ai principi che regolano la prescrizione di cui all’art. 157 e ss. del codice penale ed invece l’analogia rispetto all’art. 2945 co. 2 del codice civile.
Ed, infatti, la Cassazione, già con Sentenza Cass. Pen. sez V n.20060 del 9.5.2013, ha affermato: “D’altronde, se è vero che l’illecito amministrativo si prescrive in cinque anni dalla commissione dal reato, è anche vero che si devono applicare le cause interruttive del codice civile e pertanto la prescrizione non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento (articolo 2945 cod. civ.. Per un caso analogo si veda Sez. 4, n. 9090 del 05/04/2000, Lefemine, Rv. 217126: A norma degli artt. 2943 e 2945 cod. civ. la prescrizione è interrotta dall’atto col quale si inizia un giudizio ed essa pertanto non decorre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il processo…”.

La Sentenza in commento n. 18257 del 30.4.2015 individua il perchè dell’anomalia sopra descritta, riconoscendone la causa nella precisa scelta legislativa operata in seno alla L. 300/2000, di cui il D.Lgs. 231/01 rappresenta il Decreto attuativo. Infatti all’art. 11 della L. 300/2000 è prevista la delega al governo a r) prevedere che le sanzioni amministrative di cui alle lettere g), i) e l) si prescrivono decorsi cinque anni dalla consumazione dei reati indicati nelle lettere a), b) c) e d) e che l’interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile“.

Ciò detto, la nuova pronuncia in commento affronta il diverso aspetto concernente il momento in cui l’atto interruttivo della prescrizione, consistente nella contestazione dell’illecito, esplicherebbe i propri effetti, se con l’emissione della richiesta di rinvio a giudizio secondo le regole del codice penale oppure soltanto nel momento dell’avvenuta notifica di tale richiesta.

Scrive la Corte: “Ciò posto, va considerato come non è in dubbio, in quanto espressamente previsto, che nella disciplina dell’interruzione della prescrizione del diritto civile (art. 2943 c.c.) l’effetto di interruzione si ottenga con la portata a conoscenza dell’atto nei confronti del debitore, in particolare con la notifica degli atti processuali; del resto la ragione è che, in quel caso, l’atto introduttivo rappresenti la richiesta al debitore che non può che decorrere dalla effettiva conoscenza, mentre, nel processo penale, la prescrizione rileva in quanto mancato esercizio dell’azione penale, tenendosi perciò conto del compimento delle attività relative, ovvero dell’emissione dei provvedimento, e non della notifica.”

La conseguenza, nel caso di specie, è stata la conferma della pronuncia dichiarativa di prescrizione a fronte di una richiesta di rinvio a giudizio emessa prima dello scadere del quinto anno, ma notificata soltanto dopo la scadenza medesima.

Per il testo completo della Sentenza Cass. Pen. Sez. VI n. 18257/2015 cliccare qui.

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La sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Cassazione Penale nel caso ThyssenKrupp, depositata il 18 settembre 2014, con le sue 214 pagine, rappresenta indubbiamente la pronuncia di maggior importanza nel panorama giurisprudenziale recente, sia per la vastità ed eterogeneità degli argomenti affrontati, sia per la fondamentale importanza degli stessi.

La sentenza, con la suddivisione indicizzata in capitoli e con la sua particolare chiarezza espositiva, si presenta come un manuale prezioso per l’avvocato penalista.

L’interesse per tale pronuncia va ben al di là dell’ormai nota questione concernente la demarcazione tra “colpa cosciente” e “dolo eventuale”, che costituisce soltanto una delle molte questioni  su cui le Sezioni Unite si concentrano.

Di enorme rilievo sono, ad esempio, i capitoli della motivazione che si occupano della prova del nesso di causalità nelle condotte colpose omissive.
Sul punto la nuova sentenza si offre come nuovo pilastro di riferimento che viene a sostituirsi alla famosa e sinora intoccata Sentenza Franzese del 2002, con risvolti non trascurabili nell’affrontare processi per fattispecie colpose di qualsivoglia genere, dalla sicurezza sul lavoro, alla responsabilità medica.
Le Sezioni Unite dichiarano espressamente, con riferimento alla pronuncia Franzese, che da essa “non di rado si traggono principi ed enunciazioni opposte” e che “ad oltre dieci anni da tale importante e condivisa pronunzia, si pone, in conseguenza, la necessità di una breve messa a fuoco ed attualizzazione di alcune questioni di principio, anche alla luce della recente esperienza giuridica” (pag. 91 e ss.).
L’ottica argomentativa, enunciata a pag. 98, è quella di rendere “praticabile il giudizio di imputazione dell’evento, allontanando la prospettiva di indiscriminata impunità anche per condotte omissive gravemente trascurate e dannose” mediante il concetto di “corroborazione dell’ipotesi”.

Importanza e chiarezza degne di nota traspaiono anche dalle argomentazioni concernenti Le posizioni di garanzia” in materia di sicurezza sul lavoro.
Le Sezioni Unite affermano la necessità di “arginare l’eccessiva forza espansiva dell’imputazione del fatto determinata dal condizionalismo”, di “tentare di limitare, separare le sfere di responsabilità, in modo che il diritto penale possa realizzare la sua vocazione ad esprimere un ben ponderato giudizio sulla paternità dell’evento illecito” ed ancora di “tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori”.
Di rilievo anche l’affermata demarcazione tra soggetti garanti che “hanno un’originaria sfera di responsabilità che non hanno bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall’investitura o dal fatto” e soggetti delegati ex art. 16 D.Lgs. 81/08.

Da ultimo, per successione delle argomentazioni, ma non per importanza, la questione delleResponsabilità da reato dell’ente”, affrontata sotto vari profili, dalla natura di detta responsabilità quale tertium genus con “evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale“, ai criteri di imputazione dell’ente, con particolare riguardo all’interesse e vantaggio nei reati colposi, concetti che “vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico”.
Segue, infine, una presa di posizione in merito al profitto confiscabile, individuabile anche nel “risparmio di spesa”.

Cliccare qui per il testo della Cass. Pen. S.U. 38343_2014, tratto dal sito www.cortedicassazione.it

 

 

Con la sentenza n. 37712/2014 della Cassazione Penale, Sezione II, depositata il 15 settembre 2014, la Suprema Corte ribadisce alcuni importanti principi in materia di presupposti per l’applicazione all’ente di una misura cautelare interdittiva ex D.Lgs. 231/01 (nella specie il “divieto di contrattare con la P.A. per un anno”).

Quanto al requisito di cui all’art. 13 co. 1 lett. a) D.Lgs. 231/01, che prevede quale condizione di applicabilità delle sanzioni interdittive e, quindi, anche della loro applicazione in via cautelare, il fatto che l’ente abbia tratto “un profitto di rilevante entità”, la Corte ha ribadito il principio secondo cui “la nozione di profitto di rilevante entità ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito”.
La Suprema Corte ricorda anche il pacifico principio di alternatività di tale condizione con quella di cui alla lett. b)  del medesimo art. 13 concernente la “reiterazione degli illeciti”.

Meritevole di maggior attenzione è quanto sostenuto nella sentenza relativamente alla valutazione di permanenza del “periculum” di commissione di nuovi illeciti (condizione ex art. 45 co. 1 D.Lgs. 231/01 per l’applicazione della misura) in caso di estromissione e sostituzione degli amministratori.
Già nel 2006, con sentenza Cass Pen VI n. 32626/2006, la Suprema Corte aveva affermato che “la sostituzione o l’estromissione degli amministratori coinvolti possa portare ad escludere la sussistenza del periculum richiesto dall’art. 45 cit., ma a condizione che ciò rappresenti il sintomo che l’ente inizi a muoversi verso un diverso tipo di organizzazione, in cui sia presente l’obiettivo di evitare il rischio reato“.
La nuova sentenza n. 37712/2014 applica tale principio nel valutare il caso posto alla sua attenzione, offrendo importanti spunti di riflessione.

Secondo la Suprema Corte “Per quanto riguarda il cambio di amministratore (non è più l’indagato…)… si sottolinea come tale cambio sia strumentale alla presentazione dell’appello data la stretta “contiguità temporale tra i due eventi” e per il fatto che nel verbale di assemblea non sono spiegate le ragioni di tale sostituzione nè vengono indicate le competenze e professionalità del nuovo amministratore appena trentenne. Il Tribunale, inoltre, osserva che nella denominazione sociale permane il riferimento a …. e che non vi è alcuna prova che questi sia uscito dal gruppo e non abbia più alcuna influenza su di esso”.

Con tale sentenza vengono pertanto offerte, a contrariis, alcune indicazioni essenziali per l’ente che voglia ottenere il riconoscimento di esclusione del “periculum” mediante un cambio organizzativo nel vertice:

– prestare attenzione al momento di tale cambiamento, che può costituire sintomo di strumentalità se fatto contestualmente alla presentazione dell’appello;

– motivare in seno al verbale di assemblea le ragioni del cambiamento;

– scegliere con attenzione il nuovo vertice, in considerazione delle competenze, professionalità ed esperienza del soggetto nominato.

Sicuramente più complicato ed, a nostro parere eccessivo, è quanto rilevato in relazione al permanere del riferimento al soggetto indagato “nella denominazione sociale” ed alla carenza di prova del fatto che egli non abbia più alcuna influenza.
Riteniamo che richiedere, per la valutazione di esclusione del “periculum”, persino un cambio di denominazione sociale ed una difficilissima prova negativa di assenza di influenza del soggetto, porti a vanificare in concreto il lodevole comportamento dell’ente che intenda effettivamente dare prova di un cambio di rotta verso la legalità e prevenzione da reato.

Un ultimo aspetto di interesse della pronuncia, che lascia non poche perplessità, riguarda l’utilizzabilità in seno al procedimento 231 dello strumento di indagine e prova costituito dalle “intercettazioni telefoniche”.
Molti i dubbi sollevati in dottrina sull’utilizzabilità probatoria di tale strumento per la valutazione di responsabilità dell’ente, alla luce dei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 c.p.p. e dei limiti espressi dall’art. 270 c.p.p. per l’utilizzabilità delle intercettazione “in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti”.
Di fatto, abbiamo spesso assistito all’utilizzazione processuale delle intercettazioni, ove consentite alla luce del tipo di reato presupposto, in relazione alla prova della commissione del reato o per la valutazione degli indizi di commissione dello stesso a fini cautelari, anche nei confronti dell’ente chiamato a rispondere ex D.Lgs. 231/01 (vedasi ad es. Trib. Gorizia – GIP -ordinanza 22.7.2013).
La sentenza in commento va oltre, dando espressamente atto dell’utilizzo delle intercettazioni telefoniche non soltanto in relazione alle valutazioni sulla commissione o meno dei reati in ordine ai quali sono state disposte, ma altresì per supportare il giudizio di sussistenza  di condizioni per l’applicazione di misure cautelari proprie e peculiari del procedimento 231: “intercettazioni telefoniche che confermano la sussistenza del concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede… solo grazie alle intercettazioni è stato possibile scoprire l’inganno posto in essere dalla società ricorrente e iniziare così l’attuale procedimento”.