231: Reati commessi all’estero e reati commessi in Italia da Enti esteri – Cass. Pen. Sez. VI n. 11442 del 17.3.2016
La questione della giurisdizione del giudice italiano e della applicabilità del D.Lgs. 231/01 in caso di reato presupposto commesso all’estero e di reato commesso in Italia da Enti esteri riveste da sempre grande interesse, sia in ambito processuale, sia in sede di realizzazione dei Modelli di Organizzazione e Gestione.
Sotto tale secondo aspetto, infatti, da un lato la rilevanza dei fatti reato presupposto commessi all’estero deve necessariamente essere considerata nella costruzione dei Modelli di prevenzione, dall’altro l’applicabilità della norma italiana ad Enti esteri operanti in Italia deve essere dagli stessi considerata ai fini della valutazione di eventuale adozione del Modello esimente ex D.Lgs. 231/01.
Se l’applicabilità della norma agli Enti aventi in Italia la sede principale per fatti commessi all’estero trova espressa disciplina nell’art. 4 D.Lgs. 231/01, che ne prevede anche puntualmente le condizioni, non vi è di converso alcun dettato normativo in relazione all’ipotesi di reati commessi in Italia da Enti esteri.
In proposito, la giurisprudenza di merito ha tuttavia ripetutamente affermato l’applicabilità della norma a società straniere per reati commessi nel territorio italiano, in ragione del fatto che le società straniere operanti in Italia devono osservare le leggi del nostro ordinamento ed hanno l’onere di attivarsi ed uniformarsi alle relative normative.
La ragione giuridica di tale applicabilità è stata rinvenuta in:
– art. 34 D.Lgs. 231/01 che rinvia alle norme del codice di procedura penale;
– art. 36 D.Lgs. 231/01 che radica la competenza a decidere l’illecito 231 in capo al Giudice competente per il reato presupposto.
In tale contesto si colloca la recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, n. 11442 depositata il 17.3.2016.
In essa la Suprema Corte ritiene che, ai fini dell’applicabilità del D.Lgs. 231/01, il reato presupposto debba considerarsi commesso in Italia anche nel caso in cui nel territorio italiano si verifichi la sola “ideazione” dello stesso.
“I Giudici di merito hanno accertato che l’amministrazione della società olandese… avveniva infatti nella sede di San Donato Milanese della società italiana, dove venivano adottate tutte le decisioni strategiche ed organizzative.
E’ principio consolidato che, ai fini della punibilità dei reati commessi in parte all’estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, che, seppur privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero…. A tal fine è stata ritenuta sufficiente l’essersi verificata in Italia anche la sola ideazione del delitto, quantunque la restante condotta sia stata attuata all’estero…“
Di particolare interesse è anche quanto la Suprema Corte afferma, laddove esclude che, per i fatti commessi in parte in Italia, la definizione dei processi penali avviati all’estero contro la società precludano la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti.
Si legge in sentenza:
“Gli accordi raggiunti in Nigeria e negli Stati Uniti d’America per la definizione dei processi penali avviati in tali Stati non precludono la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti.
In relazione a questi Paesi non vige infatti alcun obbligo pattizio che impedisca l’esercizio della giurisdizione italiana.
Tale obbligo non sussiste non solo per il perseguimento degli illeciti previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, ma neppure in relazione ai reati ad essi connessi.
E’ principio consolidato nella giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità (tra le tante, Corte cost. 58 del 1997; Sez. 2, n. 40553 del 21/05/2013, Tropeano, Rv. 256469) che il ne bis in idem internazionale in materia penale non costituisca principio o consuetudine di diritto internazionale, sicchè deve trovare la sua fonte esclusivamente in un obbligo pattizio.
Le convenzioni citate dalla ricorrente (Convenzione Ocse sulla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri e Convenzione ONU contro la corruzione) prevedono soltanto meccanismi procedurali volti ad evitare che, in relazione allo stesso fatto, vengano avviati, dinanzi a diverse autorità nazionali, paralleli procedimenti penali. Tali meccanismi si esauriscono nella consultazione reciproca degli Stati al fine di stabilire quale tra le giurisdizioni concorrenti sia la più “idonea” ad esercitare l’azione penale. E’ significativo che l’art. 42, par. 6, della Convenzione ONU, precisi a tal riguardo che “fatte salve le norme di diritto internazionale generale, la presente Convenzione non esclude l’esercizio di ogni competenza penale stabilita da uno Stato Parte conformemente al proprio diritto interno”, con ciò ribadendo che, al di là della consultazione, non sussistono ulteriori conseguenze discendenti dalla Convenzione stessa.
Nel ratificare tali convenzioni, in ogni caso, l’Italia non ha ritenuto di introdurre norme volta a precludere in via generale il rinnovamento del giudizio per gli stessi fatti.
Nel D.Lgs. n. 231 del 2001, si è soltanto previsto, in relazione alla responsabilità degli enti, di apporre uno sbarramento alla perseguibilità dell’illecito commesso dall’ente nei casi in cui nei suoi confronti già proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto. Come prevede, l’art. 4 D.Lgs. cit. tale sbarramento opera in relazione ai soli “reati commessi all’estero”.
Ipotesi nella specie, non ricorrente per quanto in precedenza affermato.”
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