Riportiamo di seguito il testo del nostro articolo, già pubblicato sul settimanale giuridico “Euroconference Legal”.

La gestione delle terre e rocce da scavo ed i possibili rischi reato presupposto 231 connessi

di Anna Di Lorenzo – Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca in Padova

 

Quando ci si pone dinanzi all’analisi dei processi a rischio reato presupposto della responsabilità ex D.Lgs. 231/01 e successivamente alla predisposizione delle misure di prevenzione, non si può prescindere dall’esaminare la realtà dell’Ente, la sua attività e tutto quanto ha rilievo sulla probabilità di commissione di reati presupposto.

Nella misura in cui si è chiamati ad esaminare i rischi reato in materia ambientale ed in particolare quelli relativi alla corretta gestione dei rifiuti, non si può omettere di analizzare quali tipologie di rifiuti tratta l’Ente, in quale punto della gestione della filiera dei rifiuti si pone e soprattutto, con riferimento a determinate specifiche attività, se il materiale trattato possa essere riconducibile alla tipologia di rifiuto o di sottoprodotto. Aspetto di rilievo, perché la non corretta conoscenza di ciò e la conseguente scorretta gestione potrebbero esporre a contestazioni sia di natura amministrativa che penale.

In tale ambito assume rilievo il DPR 13 giugno 2017, n. 120 “Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164”, che interviene su un tema da sempre oggetto di modifiche normative ed interpretative.

Il DPR dispone il riordino e la semplificazione della disciplina inerente la gestione delle terre e rocce da scavo, con riferimento a:

– terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti, provenienti da cantieri di piccole e grandi dimensioni[1];

– disciplina del deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate come rifiuti;

– utilizzo nel sito di produzione delle terre e rocce da scavo escluse dalla disciplina dei rifiuti;

– gestione delle terre e rocce da scavo nei siti oggetto di bonifica.

Altri aspetti importanti utili per l’esame del processo di gestione e per le ripercussioni conseguenti sono:

– la definizione di sottoprodotto[2];

– termini, tempi e modi relativi alla gestione del “sito di deposito intermedio[3],

– la dichiarazione da effettuare in caso di impiego di terre e rocce da scavo.

Da questo sintetico quadro si evince che gli Enti interessati a tale normativa sono sicuramente quelli che operano nel settore dell’edilizia, infrastrutture, opere pubbliche, gli Enti che si occupano di attività di bonifica e coloro che impiegano terre e rocce da scavo[4]. Ciò a conferma del fatto che proprio il tipo di attività svolta dall’Ente assume rilievo per valutare l’applicabilità ad esso di tale normativa e le conseguenze organizzative sull’Ente per adempiervi correttamente.

La non corretta o l’omessa classificazione ed analisi delle terre e rocce da scavo potrebbe esporre l’Ente alla commissione di determinate fattispecie di reati presupposto in materia ambientale, ma altresì, una volta classificate correttamente le terre e rocce da scavo come sottoprodotto, la non corretta gestione del “deposito intermedio” farebbe venir meno la qualificazione delle stesse come sottoprodotti, riconducendole invece “con effetto immediato” alla categoria di rifiuti con tutti i relativi oneri ed adempimenti connessi[5]. In linea con tale conclusione si presenta l’esclusione, dalla disciplina del DPR, all’art. 3, dei “rifiuti provenienti direttamente dall’esecuzione di interventi di demolizione di edifici o di altri manufatti preesistenti, la cui gestione è disciplinata ai sensi della Parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”.

Rileviamo anche che il produttore delle terre e rocce da scavo, che dovrebbero essere reimpiegate, deve dimostrare che non sono stati superati i valori di “concentrazione soglia di contaminazione nel suolo” previsti per le bonifiche e che i materiali non costituiscono fonte diretta o interna di contaminazione per le acque sotterranee. Aspetto questo che, come gli altri, rileva per le fattispecie di reato presupposto ambientali.

Ciò considerato, riteniamo che, in base al tipo di attività svolta dall’Ente, vada preso in esame tale DPR, non solo per individuare le aree di rischio, ma soprattutto per poter predisporre idonei controlli di prevenzione che contengano regole di comportamento ed organizzazione, al fine di rispettare le previsioni normative e non incorrere in reati.

Tuttavia un controllo pregnante sulla provenienza e costituzione delle terre e rocce da scavo non spetta solamente al produttore che riutilizzi il sottoprodotto all’interno del sito di produzione, ma anche all’utilizzatore esterno, in quanto la mancata verifica del rispetto delle concentrazioni soglia di contaminazione comporta conseguenze in materia di inquinamento ambientale, potendo condurre alla realizzazione di fattispecie che costituiscono reato presupposto. Inoltre va considerata anche l’attività di trasporto di tale materiale che deve essere accompagnato dalla documentazione prescritta[6].

Non va omesso di valutare che il DPR in più punti rimarca che le procedure di gestione sono state previste per “garantire che la gestione e l’utilizzo delle terre e rocce di scavo come sottoprodotti avvenga senza pericolo per la salute dell’uomo e senza recare pregiudizio all’ambiente” e ancora si parla della finalità di assicurare “livelli di tutela ambientale e sanitaria garantendo controlli efficaci…[7].

Per tutto quanto detto e per la disciplina sottesa alla corretta gestione delle terre e rocce da scavo, quali sottoprodotti, in caso di inosservanza delle disposizioni del DPR 120/2017 ai fini della disciplina del D.Lgs. 231/01 potremo avere una pluralità di reati presupposto, alcuni strettamente connessi all’ambiente (quali ad esempio gestione dei rifiuti, inquinamento ambientale) altri legati ai rapporti con le autorità competenti a ricevere le “dichiarazioni di avvenuto utilizzo[8] e ad effettuare i controlli relativi.

[1] Sul punto il DPR indica le soglie numeriche per l’identificazione della tipologia di cantiere. Si vedano le definizioni di cantiere riportate all’art. 2 DPR 120/2017: lett. t) “cantieri di piccole dimensioni”, “cantiere in cui sono prodotte terre e rocce da scavo in quantità non superiore ai seimila metri cubi, calcolati dalle sezioni di progetto, nel corso di attività e interventi autorizzati in base alle norme vigenti, comprese quelle prodotte nel corso di attività o opere soggette a procedure di valutazione di impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale di cui alla Parte II del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”; lett. u) “cantieri di grandi dimensioni”, “cantiere in cui sono prodotte terre e rocce da scavo in quantità superiore ai seimila metri cubi (…)”; lett. v) dove sono definiti i “cantieri di grandi dimensioni non sottoposti a VIA o AIA” anch’essi soggetti alla disciplina del DPR.

[2] Ai sensi dell’art. 4 co. 2 DPR 120/2017, le terre e rocce da scavo per essere qualificate sottoprodotti devono soddisfare i seguenti requisiti:

a) sono generate durante la realizzazione di un’opera, di cui costituiscono parte integrante e il cui scopo primario non è la produzione di tale materiale;

  1. b) il loro utilizzo è conforme alle disposizioni del piano di utilizzo di cui all’articolo 9 o della dichiarazione di cui all’articolo 21, e si realizza: 1)  nel corso dell’esecuzione della stessa opera nella quale è stato generato o di un’opera diversa, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, miglioramenti fondiari o viari, recuperi ambientali oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali; 2)  in processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava;
  2. c)  sono idonee ad essere utilizzate direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
  3. d)  soddisfano i requisiti di qualità ambientale espressamente previsti dal Capo II o dal Capo III o dal Capo IV del presente regolamento, per le modalità di utilizzo specifico di cui alla lettera b).

[3] Si veda l’art. 2, co. 1 lett. n) del DPR 120/2017.

[4] A tal fine si vedano l’art. 1 co. 1 lett. a) e l’art. 2 lett. aa) da cui si possono evincere elementi utili per desumere le attività di rilievo dell’Ente ai fini del DPR.

[5] Si veda l’art. 5 del DPR 120/2017 che definisce il deposito intermedio e la modalità di gestione ed al comma 3 espressamente chiarisce “Decorso il periodo di durata del deposito intermedio indicato nel piano di utilizzo e nelle dichiarazioni di cui all’art. 21, viene meno, con effetto immediato, la qualifica di sottoprodotto delle terre e rocce non utilizzate in conformità al piano di utilizzo o alla dichiarazione di cui all’art. 21, e pertanto, tali terre e rocce sono gestite come rifiuti …””.

 

[6] Si veda l’art. 6 del DPR 120/2017.

[7] Si vedano rispettivamente gli artt. 4, co. 1 e 1, co. 2 del DPR 120/2017.

[8] Si veda l’art. 7 del DPR 120/2017.

Si segnala la recentissima introduzione di nuove fattispecie di reato presupposto della Responsabilità ex D.Lgs. 231/01.

Un primo intervento normativo è avvenuto ad opera della Legge 17 ottobre 2017 n. 161 in vigore dal 19 novembre, che all’art. 30, co. 4, ha inserito i commi 1-bis, 1-ter e 1-quater nell’art. 25-duodecies del D.Lgs. 231/01.
Si tratta dei reati di cui all’art. 12, commi 3, 3-bis, 3-ter e 5 del D.Lgs. 286/1998, il cui contenuto di seguito si riporta:

“3. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non e’ cittadina o non ha titolo di residenza permanente, e’ punito con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona nel caso in cui:  a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone; b) la persona trasportata e’ stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale; c) la persona trasportata e’ stata sottoposta a trattamento inumano o degradante per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale; d) il fatto e’ commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti; e) gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti.

3-bis. Se i fatti di cui al comma 3 sono commessi ricorrendo due o più delle ipotesi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del medesimo comma, la pena ivi prevista è aumentata.

3-ter. La pena detentiva e’ aumentata da un terzo alla metà e si applica la multa di 25.000 euro per ogni persona se i fatti di cui ai commi 1 e 3:  a) sono commessi al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento; b) sono commessi al fine di trame profitto, anche indiretto. 

5. Fuori dei casi previsti dai commi precedenti, e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico, è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a lire trenta milioni. Quando il fatto e’ commesso in concorso da due o più persone, ovvero riguarda la permanenza di cinque o più persone, la pena e’ aumentata da un terzo alla metà.” 

Un ulteriore intervento normativo è avvenuto ad opera della c.d. Legge europea 2017, approvata definitivamente in data 8 novembre 2017 ed ancora in attesa di pubblicazione, la quale, all’art. 5, comma 2, introduce nel D.Lgs. 231/01 l’art. 25-terdecies “Razzismo e xenofobia” che sanziona l’ente in caso di commissione dei delitti di cui all’art. 3, comma 3-bis, della legge 13 ottobre 1975, n. 654.

Si tratta del seguente reato, come modificato dal testo approvato della Legge europea 2017: “3-bis. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232″.

Le novità in questione dovranno essere tenute in considerazione nella predisposizione dei Modelli 231 e nell’aggiornamento di quelli esistenti, ponderando la possibilità di commissione di tali reati alla luce delle attività svolte dall’ente.

Riportiamo di seguito il testo del nostro articolo, già pubblicato sul settimanale giuridico “Euroconference Legal”.

Modello 231 nelle Società controllate da P.A. ed Enti pubblici

di Alberto Tenca e Anna Di Lorenzo, con la collaborazione di Elena Zaggia – Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca in Padova

Il tema del rapporto tra “Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione”, ora dopo l’intervenuta riforma del D.Lgs. 97/2016 “Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza” (PTPCT), ed il Modello 231 è stato da sempre oggetto di valutazioni e considerazioni da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC). In particolare le posizioni assunte dall’Autorità hanno posto l’interrogativo se l’adozione del Modello 231 per le controllate e partecipate pubbliche fosse un “obbligo” e non un “onere” come prevede il legislatore del D.Lgs. 231/01.

Nella determinazione n. 8 del 17 giugno del 2015, l’ANAC, al Punto 2., ha previsto: “Le presenti Linee guida muovono dal presupposto fondamentale che le amministrazioni controllanti debbano assicurare l’adozione del Modello di organizzazione e gestione previsto dal D.Lgs. 231/2001 da parte delle società controllate. Oneri minori gravano, come si vedrà, per le società a partecipazione pubblica non di controllo, nei confronti delle quali le amministrazioni partecipanti si attivano per promuovere l’adozione del suddetto modello organizzativo”.

Con la riforma della L. 190/2012 ad opera del D.Lgs. 97/2016 il legislatore prende una nuova posizione sulla correlazione tra Modello ex D.Lgs. 231/2001 e PTPCT.

Il nuovo comma 2 bis inserito all’art. 1 L. 190/2012 enuncia infatti che: “Il Piano nazionale anticorruzione è adottato sentiti (…). Il Piano ha durata triennale ed è aggiornato annualmente. Esso costituisce atto di indirizzo per le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai fini dell’adozione dei propri piani triennali di prevenzione della corruzione, e per gli altri soggetti di cui all’articolo 2-bis, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai fini dell’adozione di misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, anche per assicurare l’attuazione dei compiti di cui al comma 4, lettera a). Esso, inoltre, anche in relazione alla dimensione e ai diversi settori di attività degli enti, individua i principali rischi di corruzione e i relativi rimedi e contiene l’indicazione di obiettivi, tempi e modalità di adozione e attuazione delle misure di contrasto alla corruzione”.

Tale presa di posizione dà luogo a diverse possibili interpretazioni.

La bozza di Linee Guida dell’ANAC, posta in consultazione pubblica sul sito dell’Autorità fino al 26 aprile 2017, risponde innanzitutto all’esigenza di considerare il nuovo ambito soggettivo di applicazione delle disposizioni in tema di trasparenza, delineato dal citato comma 2 bis. Tali linee guida si ripropongono di sostituire la Determinazione 8/2015.

Al Punto 3.1.1. le Linee Guida in consultazione si esprimono come segue: “In una logica di coordinamento delle misure e di semplificazione degli adempimenti, le società integrano il “modello 231” con misure idonee a prevenire anche i fenomeni di corruzione e di illegalità in coerenza con le finalità della legge n. 190 del 2012. In particolare, quanto alla tipologia dei reati da prevenire, il d.lgs. n. 231 del 2001 ha riguardo ai reati commessi nell’interesse o a vantaggio della società o che comunque siano stati commessi anche e nell’interesse di questa (art. 5), diversamente dalla legge 190 che è volta a prevenire anche reati commessi in danno della società. Nella programmazione delle misure occorre ribadire che gli obiettivi organizzativi e individuali ad esse collegati assumono rilevanza strategica ai fini della prevenzione della corruzione e vanno pertanto integrati e coordinati con tutti gli altri strumenti di programmazione e valutazione all’interno della società o dell’ente. Queste misure devono fare riferimento a tutte le attività svolte ed è necessario siano ricondotte in un documento unitario che tiene luogo del Piano di prevenzione della corruzione anche ai fini della valutazione dell’aggiornamento annuale e della vigilanza dell’A.N.AC. Se riunite in un unico documento con quelle adottate in attuazione del d.lgs. n. 231/2001, dette misure sono collocate in una sezione apposita e dunque chiaramente identificabili, tenuto conto che ad esse sono correlate forme di gestione e responsabilità differenti. È opportuno che esse siano costantemente monitorate anche al fine di valutare, almeno annualmente, la necessità del loro aggiornamento. Poiché il comma 2 bis dell’art. 1 della l. 190/2012, così come modificato dal d.lgs. 97/2016, ha reso obbligatoria l’adozione delle misure integrative del “modello 231”, è fortemente raccomandata, ove le società non vi abbiano già provveduto, l’adozione di tale modello, almeno contestualmente alle misure integrative anticorruzione. Le società che decidano di non adottare il “modello 231” e di limitarsi all’adozione del documento contenente le misure anticorruzione dovranno motivare tale decisione. L’ANAC, in sede di vigilanza, verificherà quindi l’adozione e la qualità delle misure di prevenzione della corruzione e monitorerà lo stato di adozione del “modello 231”. Le società, che abbiano o meno adottato il “modello 231”, definiscono le misure per la prevenzione della corruzione in relazione alle funzioni svolte e alla propria specificità organizzativa.

Rispetto quindi alla posizione assunta in seno alla Determinazione 8/2015, l’ANAC parrebbe ora voler lasciare alla libera decisione delle società controllate la scelta di dotarsi o meno del Modello 231.

Nelle more dell’approvazione, è intervenuto tuttavia un parere del Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 20 aprile 2017, numero affare 650/2017 – proprio in riferimento alle suddette Linee Guida.

Il Consiglio di Stato, al punto 9.1 del parere, si esprime accentuando maggiormente le intenzioni che sembrano sottointese dal legislatore con l’inserimento del nuovo co. 2 bis nell’art. 1 L. 190/2012: “Per quanto concerne le misure organizzative per la prevenzione della corruzione, nello schema delle linee guida si afferma che, alla luce dell’art. 1, comma 2 bis della L. 190/2012, l’adozione del Modello è “fortemente raccomandata” e che le società che decidono di non adottarlo e di limitarsi quindi ad adottare le misure integrative anticorruzione dovranno motivare tale decisione. Si osserva però che l’obbligo normativo sancito dall’art. 1 co. 2 bis, della L. 190/2012, sottintende l’adempimento dell’obbligo base definito dal D.Lgs. 231/2001, tant’è vero che si tratta di misure “integrative” che, altrimenti, risulterebbero prive della base organizzativa fondamentale. Peraltro, anche avendo riguardo alla ratio della previsione, l’elasticità consentita dalla formulazione delle linee guida non è funzionale al conseguimento degli obiettivi della normativa. Ne è conferma il fatto che le stesse linee guida, nel sottolineare la permanente necessità degli adempimenti anticorruzione da parte delle società pubbliche in liquidazione, sembra sottintendano (alle pagg. 22-23) l’adozione del c.d. Modello 231. Si suggerisce pertanto una formulazione che renda in modo adeguato la portata cogente dell’obbligo.

Secondo il Consiglio di Stato dunque la norma di cui all’art. 1 co. 2 bis L. 190/2012 determinerebbe un obbligo cogente per le società controllate di adozione del Modello 231.

Non ci resta che attendere l’approvazione delle Linee Guida per vedere la posizione che intenderà assumere l’ANAC, competente a sanzionare la mancanza o incompletezza dei Piani.

 

Riportiamo di seguito il testo del nostro articolo, già pubblicato sul settimanale giuridico “Euroconference Legal”.

Il procedimento penale 231 – La Cassazione prende posizione su vari aspetti controversi con la sentenza n. 41768/2017 della Sez. VI

di Alberto Tenca – Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca in Padova

 

Competenza per territorio e competenza per connessione rispetto a reati non oggetto di addebito 231, contestazione 231 con rinvio ai capi di imputazione per le persone fisiche, utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, indipendenza delle impugnazioni dell’imputato e dell’ente, queste le principali questioni procedimentali e processuali affrontate nelle 146 pagine della sentenza della Cassazione penale, Sez. VI, n. 41768 depositata il 13.9.2017.

Con tale pronuncia la Suprema Corte ha assunto precisa e motivata posizione su alcuni degli aspetti più controversi della disciplina processual-penalistica dell’accertamento della Responsabilità degli enti, in bilico tra norme del codice di procedura penale e disposizioni speciali di cui al D.Lgs. 231/01.

Competenza per territorio e connessione    

“Il <<giudice penale competente>> a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente è il medesimo <<giudice penale competente>> per i reati dai quali gli stessi dipendono, anche se la sua competenza in relazione a questi ultimi discende dall’applicazione delle regole di connessione”.

La Cassazione, dunque, sancisce la competenza in relazione al procedimento 231 in capo al giudice, non solo astrattamente, ma in concreto competente a decidere in merito al reato presupposto, a nulla rilevando che tale competenza sia determinata per connessione rispetto ad un diverso reato addebitato esclusivamente a persone fisiche.

Tale conclusione sarebbe per la Corte in linea con l’intenzione del legislatore tesa ad “agevolare il più possibile, la celebrazione di un simultaneus processus ed evitare contrasti di giudicato con conseguenti giudizi di revisione”.

Contestazione 231 con rinvio ai capi di imputazione per le persone fisiche

Secondo la Suprema Corte non è affetta da nullità la contestazione nei confronti dell’ente, laddove, come nel caso all’esame, gli elementi essenziali della stessa siano ricavabili dal rinvio ai capi di imputazione a carico delle persone fisiche.

La sentenza fa salva la contestazione, quanto all’indicazione dei rapporti ex art. 5 D.Lgs. 231/01 tra imputati persone fisiche ed ente, in quanto la contestazione stessa “opera un espresso analitico riferimento ai capi di imputazione addebitati alle persone fisiche, al dichiarato fine tanto dell’individuazione dei singoli reati-presupposto, quanto del tipo di rapporto intercorrente… tra l’ente e la persona fisica che agiva per suo conto”.

Il rinvio al contenuto di altri capi accusatori sanerebbe le lacune della contestazione specifica all’ente anche con riguardo all’individuazione dei requisiti di interesse e vantaggio. Si legge infatti: “è vero che il capo 90.f non esplicita puntualmente il profilo del vantaggio o dell’interesse dell’ente. Tuttavia, le singole contestazioni cui fa rinvio il capo 90.f consentono di individuare i vantaggi indebitamente conseguiti dalle società… in relazione a ciascun reato e gli interessi per le stesse illecitamente perseguiti”.

Utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche

La questione specifica è da sempre stata oggetto di dibattito dottrinale. Parte della dottrina escludeva l’utilizzabilità delle intercettazioni per l’accertamento dell’illecito amministrativo, in considerazione del fatto che le intercettazioni vengono autorizzate dal giudice solo in presenza di uno dei reati previsti dall’art. 266 c.p.p., non quindi in caso di “illeciti amministrativi dipendenti da reato”. Altra parte della dottrina riteneva che le intercettazioni fossero utilizzabili per effetto del richiamo alle regole generali del rito penale, anche al di fuori della simultaneità processuale, ovviamente solo nei casi in cui ciò sia consentito in relazione al particolare reato presupposto che si persegue.

In giurisprudenza si è spesso assistito, in concreto, ad un ampio utilizzo delle intercettazioni telefoniche, effettuate in relazione ai reati presupposto, anche nei confronti dell’ente incolpato ai sensi del D.Lgs. 231/01.

Un esempio è dato dalla sentenza n. 37712/14 della Corte di Cassazione, II Sezione Penale, che espressamente pone in risalto le risultanze di intercettazioni telefoniche in sede cautelare 231, al fine di trarre da esse conferma circa “la sussistenza del concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede”.

La recentissima sentenza qui in esame affronta direttamente la questione, per rispondere alle doglianze della difesa, affermando che “è indiscusso che le disposizioni del codice di procedura penale in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni si applichino anche nei confronti degli enti”.

La motivazione si fonda innanzitutto sul disposto degli artt. 34 e 35 D.Lgs. 231/01 che richiamano l’applicabilità delle disposizioni del codice di procedura penale in quanto compatibili e l’applicabilità all’ente delle disposizioni processuali relative all’imputato. Dettati normativi che, secondo la Corte, sarebbero corroborati dalla Relazione Ministeriale al D.Lgs. 231/01 laddove si osserva che “Poiché l’illecito penale è uno dei presupposti della responsabilità, occorre disporre di tutti i necessari strumenti di accertamento di cui è provvisto il procedimento penale…”.

La sentenza richiama “il consolidato orientamento giurisprudenziale”, secondo cui “i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per uno dei reati rientranti tra quelli indicati nell’art. 266 c.p.p. sono utilizzabili anche con riferimento ad altri reati che emergano dall’attività di captazione, ancorchè per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite, purchè tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dei reati per cui si procede separatamente vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, cosicchè il relativo procedimento possa ritenersi non diverso rispetto al primo, ai sensi dell’art. 270 c.p.p., comma 1”.

Da tale orientamento la Suprema Corte deduce che “sembra ragionevole concludere che i risultati desumibili dalle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni ordinate per il reato presupposto sono comunque utilizzabili anche per accertare la responsabilità dell’ente, ed anche se il procedimento relativo a quest’ultimo sia stato formalmente separato per vicende successive. Invero, pure a voler sottolineare che altro è il reato presupposto ed altro è l’illecito amministrativo dipendente dal reato presupposto, è innegabile l’esistenza di una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dell’illecito amministrativo dipendente dal medesimo reato”.

Indipendenza delle impugnazioni dell’imputato e dell’ente

Sul punto la Suprema Corte afferma che “… le impugnazioni dell’imputato persona fisica e dell’ente sono e restano tra di loro indipendenti: è solo l’eventuale risultato positivo che si estende per evitare giudicati contrastanti che potrebbero imporre la revisione della sentenza dichiarativa di responsabilità nei confronti dell’ente…”.

Tale principio, che discenderebbe da un lato dalla “limitazione soggettiva” prevista dall’art. 71 D.Lgs. 231/01, che individua nell’ente e nel pubblico ministero i soli soggetti legittimati ad impugnare le sentenze che applichino le “sanzioni amministrative” 231, dall’altro dall’art. 72 del decreto stesso, laddove prevede che le impugnazioni di imputato ed ente “giovano, rispettivamente, all’ente e all’imputato…”, determina che “… l’imputato persona fisica autore del reato presupposto, anche quando sia rappresentante legale e socio della persona giuridica, non è legittimato, né ha interesse ad impugnare il capo della sentenza relativo all’affermazione di responsabilità amministrativa dell’ente…”.

Queste sono solo alcune delle interessanti posizioni assunte dalla Suprema Corte in seno alla sentenza in oggetto, cui altre se ne aggiungono sul piano processuale e sostanziale e con le quali non sarà possibile non confrontarsi nell’esperimento della difesa penale degli enti.

 

A sei anni ormai dall’ingresso nel catalogo dei reati presupposto dei reati ambientali, avvenuto con il D.Lgs. 7 luglio 2011 n. 121, entrato in vigore il 16 agosto 2011, spesso tra gli “operatori della 231” ci si ritrova a domandarsi come poter impostare al meglio la prevenzione in seno ai Modelli di organizzazione e gestione e quali aspetti e comportamenti considerare in relazione alle fattispecie di cui agli artt. 727 bis e 733 bis c.p.

Risulta allora utile, anche con riferimento alle definizioni di “impatto trascurabile”, “quantità trascurabile” e di “habitat”, andare a riesaminare la Relazione n. III/09/2011 della Corte di Cassazione, che potrà fornire utili spunti interpretativi da utilizzare come suggerimenti organizzativi nell’ottica di prevenzione dei rischi reato presupposto.

Cliccare qui per il testo della Relazione n. III/09/2011

Riportiamo di seguito il testo del nostro articolo, già pubblicato sul settimanale giuridico “Euroconference Legal”.

D.Lgs. 254/2016 – Dichiarazioni di carattere non finanziario e Modello 231

di Alberto Tenca e Anna Di Lorenzo

Il D.Lgs. 30 dicembre 2016 n. 254, in attuazione della Direttiva 2014/95/UE, introduce nel nostro ordinamento l’obbligo per determinati enti di redigere per ogni esercizio finanziario una dichiarazione di carattere non finanziario volta ad “assicurare la comprensione dell’attività di impresa, del suo andamento, dei suoi risultati e dell’impatto dalla stessa prodotta”, avente ad oggetto temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani ed alla lotta contro la corruzione attiva e passiva.

Gli enti in tal senso obbligati sono gli “enti di interesse pubblico” indicati all’art. 16 co. 1, D.Lgs. 39/2010 (società italiane emittenti valori mobiliari ammessi alla negoziazione su mercati regolamentati italiani e dell’UE, banche, imprese di assicurazione e riassicurazione) ove superino il limite dimensionale di 500 dipendenti e 20 milioni di euro come totale dello stato patrimoniale o 40 milioni di euro come totale dei ricavi netti delle vendite e delle prestazioni.

La normativa europea è stata dettata in considerazione del riconoscimento che “la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario è fondamentale per gestire la transizione verso un’economia globale sostenibile, coniugando redditività a lungo termine, giustizia sociale e protezione dell’ambiente”.

La normativa italiana che ne è scaturita con il D.Lgs. 254/2016 determina effetti rilevanti sul piano dei Modelli 231, per quanto di seguito esposto.

Principali contenuti normativi di interesse

Per meglio comprendere l’impatto di tale norma sotto l’aspetto del D.Lgs. 231/01, appare necessario esaminarne sinteticamente i contenuti.

La “dichiarazione di carattere non finanziario”, che gli indicati “enti di interesse pubblico” hanno l’obbligo di redigere, deve descrivere necessariamente, oltre alle politiche praticate ed ai principali rischi, “il modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attività d’impresa, ivi inclusi i modelli di organizzazione e di gestione eventualmente adottati ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231…” (art. 3, co. 1, lett. a).

Tale dichiarazione, che può essere “individuale” “consolidata”, quest’ultima ove redatta da enti di interesse pubblico che siano società madri di un “gruppo di grandi dimensioni”, deve essere redatta dagli Amministratori come dichiarazione distinta o contenuta nella Relazione sulla gestione, ma in ogni caso deve essere messa a disposizione dell’Organo di controllo e del soggetto incaricato della revisione legale entro gli stessi termini previsti per la presentazione del progetto di bilancio e deve essere pubblicata sul registro delle imprese.

L’Organo di controllo deve vigilare sull’osservanza della norma e riferirne nella relazione annuale all’assemblea (art. 3 co. 7).

Il soggetto incaricato della revisione legale deve verificarne la predisposizione e il soggetto stesso o altro appositamente designato, purchè abilitato allo svolgimento della revisione legale, deve esprimere apposita “attestazione circa la conformità delle informazioni fornite”, tra le quali anche, ricordiamolo, la descrizione dell’eventuale Modello 231 (art. 3 co. 10).

In caso di inosservanza sono previste a carico di Amministratori, Organi di controllo e soggetti incaricati della revisione legale pesanti sanzioni amministrative, la cui irrogazione, previo accertamento delle violazioni, è demandata alla Consob secondo proprio regolamento il cui testo è stato posto in consultazione il 21 luglio 2017.

Impatti sui Modelli ex D.Lgs. 231/01

Dal contesto delle disposizioni sopra sinteticamente riportate, emerge la rilevanza che il Modello 231 assume quale specifico contenuto della dichiarazione, per cui la norma in esame costituisce un nuovo espresso riconoscimento legislativo dell’indiscutibile importanza dei Modelli 231 nel contesto dell’organizzazione e gestione degli enti.

Si deve inoltre considerare come i principali contenuti della dichiarazione, ulteriori rispetto alla descrizione del “modello aziendale”, riguardino proprio aspetti che trovano gestione nel Modello 231 e, quindi, monitoraggio da parte dell’Organismo di Vigilanza ex art. 6 D.Lgs. 231/01. Si pensi ad esempio ai “temi ambientali” ed, in particolare alle “emissioni di gas ad effetto serra”, alle “emissioni inquinanti” ed all’impatto sull’ambiente, o ancora all’impatto sulla salute e sicurezza, alla “gestione del personale” ed alla “lotta contro la corruzione sia attiva sia passiva”.

Ne consegue che negli enti obbligati alla dichiarazione in esame ed in quelli che la redigono su base volontaria ai sensi dell’art. 7 D.Lgs. 254/2016, non solo gli Amministratori, ma anche gli Organi di controllo ed i soggetti incaricati della revisione legale sono tenuti evidentemente ad una pregnante conoscenza della situazione di attuazione ed aggiornamento dei Modelli 231, che dovrà necessariamente realizzarsi mediante un consolidato costante confronto con l’Organismo di Vigilanza.

Sotto diverso profilo, il fatto che la dichiarazione di carattere non finanziario si ponga sullo stesso piano della Relazione sulla gestione, sia rivolta ai soci, soggetta alla vigilanza degli Organi di controllo e sottoposta al potere di controllo e sanzionatorio della Consob, determina la possibilità che nel redigerla siano commessi taluni reati presupposto della responsabilità ex D.Lgs. 231/01, che il Modello 231 dovrà quindi preoccuparsi di prevenire. Si pensi, ad esempio, alla possibilità che dichiarazioni non veritiere integrino i reati di “Impedito controllo” ex art. 2625 c.c., “Illecita influenza sull’assemblea” ex art. 2636 c.c. (reato che la giurisprudenza ritiene configurabile anche ove le deliberazioni dei soci siano influenzate da dichiarazioni mendaci o reticenti) o “Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza” ex art. 2638 c.c. (in primis la Consob).

I Modelli 231 di tali enti dovranno quindi essere aggiornati per prevedere misure di prevenzione volte a garantire la veridicità e completezza dei contenuti della dichiarazione in esame.
Di aiuto nell’individuare gli aspetti che il Modello 231 dovrà considerare a tal fine, si ritene possa essere quanto previsto dalla Consob nel documento in consultazione del 21 luglio 2017 con riferimento alle responsabilità degli Organi di controllo.

Si legge infatti, al punto 2.3, penultimo paragrafo, di tale documento: “considerato che la corretta predisposizione della DNF [dichiarazione di carattere non finanziario] rappresenta, come sopra detto, l’esito di un elaborato processo di valutazione, che consenta, in base al principio di materialità, di individuare le informazioni necessarie ad assicurare la comprensione dell’attività dell’impresa e dei suoi impatti sui temi non finanziari indicati dal decreto, anche le funzioni di controllo attribuite al collegio sindacale sulla conformità alla legge della DNF e la sua completezza si sostanziano principalmente in un’attività di vigilanza sull’adeguatezza di tutte le procedure, i processi e le strutture che presiedono alla produzione, rendicontazione, misurazione e rappresentazione dei risultati e delle informazioni di carattere non finanziario.

Il D.Lgs. 15 marzo 2017 n. 38 ha modificato il testo dell’art. 2635 c.c. (Corruzione tra privati) ed ha introdotto il reato di “Istigazione alla corruzione tra privati” di cui all’art. 2635-bis c.c., oltre a prevedere pene accessorie alla condanna nell’art. 2635-ter.

L’impatto sul D.Lgs. 231/01 risulta alquanto rilevante, poichè tale nuova norma interviene sulla lettera s-bis) dell’art. 25-ter, aggravando le sanzioni pecuniarie in relazione al reato presupposto di “Corruzione tra privati”, introducendo il nuovo reato presupposto di “Istigazione alla corruzione tra privati” e prevedendo per entrambi i reati le sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2.

Si riporta al presente link, il testo della norma, aggiornato a seguito del D.Lgs. 15 marzo 2017 n. 38, pubblicato il 30 marzo 2017.

Riportiamo di seguito il testo del nostro articolo, già pubblicato sul settimanale giuridico “Euroconference Legal”.

 

Introduzione del reato di “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” tra i reati presupposto della Responsabilità 231

di Alberto Tenca e Anna Di Lorenzo – Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca in Padova

 

La Legge 29 ottobre 2016, n. 199, entrata in vigore il 4.11.2016, rappresenta un nuovo emblematico esempio dell’incessante estensione dei reati presupposto della Responsabilità 231.
Il dato di esperienza nella produzione normativa, che dal 2001 ad oggi non ha conosciuto soluzione di continuità, induce ormai a ritenere consolidato nel nostro ordinamento un modus operandi del legislatore volto ad inserire nel testo del D.Lgs. 231/01 un reato, di nuova introduzione od oggetto di riforma alla luce del particolare allarme sociale che ingenera, estendendo ad esso la Responsabilità amministrativa degli enti quale principale strumento di contrasto.

Nel caso di specie, la Legge 199/2016 ha operato un intervento volto a rafforzare il contrasto al cosiddetto “caporalato”, modificando il testo dell’art. 603-bis c.p. concernente il reato di “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” introdotto per la prima volta con il D.L. 138/2011, convertito con modificazioni dalla L. 148/2011.

Rispetto al testo previgente, volto a punire la condotta di chi svolgesse “un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”, la nuova fattispecie risulta sicuramente ampliata.

Il reato in esame, oggi, risulta slegato dal requisito dello svolgimento di “un’attività organizzata di intermediazione”, andando a colpire non solo chi “recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento…”, ma altresì chiunque “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”.

A ciò deve aggiungersi che integra il reato de quo, rispetto alla fattispecie previgente, anche la condotta non caratterizzata da violenza, minaccia o intimidazione, posto che la violenza e la minaccia sono divenute oggi circostanze aggravanti e non più elementi costitutivi del reato.

Anche gli “indici di sfruttamento” enunciati dall’art. 603-bis c.p. assumono una connotazione più ampia, essendo oggi alcuni di essi parametrati, ad esempio, non più a condotte sistematiche di sottoretribuzione e violazione delle norme su orari, riposi, aspettativa e ferie, bensì a siffatte condotte anche solo “reiterate”.

Di particolare rilievo è anche l’indice di sfruttamento relativo alla “sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro” che oggi, a differenza di prima, rileva anche laddove non sia tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale.

Il “grave pericolo” infatti rileva ora solo quale circostanza aggravante ai sensi del comma 4 punto 3).

Inoltre evidenziamo che nel contesto di tale indice non rileva neppure la reiterazione della condotta.

L’intervento legislativo mira al contrasto del reato in esame anche attraverso altri strumenti, quali:

– l’introduzione, con l’art. 603-bis.1 c.p., di un’attenuante in caso di comportamenti collaborativi;

– una nuova ipotesi di confisca obbligatoria, con l’introduzione dell’art. 603-bis.2 c.p.;

– la previsione di un “controllo giudiziario dell’azienda”, con nomina di un “amministratore giudiziario” destinato ad affiancare l’imprenditore;

– la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza, con modifica dell’art. 380, co. 2 c.p.p.;

– l’estensione al reato in esame della particolare confisca di cui all’art. 12-sexies D.L. 306/1992.

Venendo a quanto qui maggiormente interessa, l’art. 6 della L. 199/2016, introduce il reato di cui all’art. 603-bis c.p. in seno all’art. 25-quinquies, co. 1, lett. a) D.Lgs. 231/01, prevedendo per l’ente le stesse gravissime sanzioni disposte per i diversi reati di “Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù” (art. 600 c.p.), “Tratta di persone” (art. 601 c.p.) e “Acquisto e alienazione di schiavi” (art. 602 c.p.):

– sanzione pecuniaria da 400 a 1000 quote;

– sanzioni interdittive di cui all’art. 9, co. 2 D.Lgs. 231/01, senza esclusioni, per una durata non inferiore ad un anno;

– interdizione definitiva dall’attività, se l’ente o una sua unità organizzativa sono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione del reato.

Appare dunque evidente la pericolosità insita nella previsione di tali sanzioni estreme, collegate ad un reato non più limitato a chi svolge attività organizzata di intermediazione, non più legato a violenza e minaccia come elementi costitutivi e connotato da “uno sfruttamento” i cui indici si rinvengono nella semplice reiterazione di condotte di retribuzione difforme, violazione delle norme su orario, riposo, aspettativa e ferie o nella mera sussistenza di violazione delle norme antinfortunistiche, anche non tali da esporre a pericolo il lavoratore.

Il tutto con l’unico connotato caratteristico dell’esistenza di uno “stato di bisogno” del lavoratore di cui il reo approfitti.

Rileviamo come, a contemperamento di una siffatta estensione nella possibile applicazione della norma, si debba tuttavia considerare la natura dolosa del reato in esame con la conseguenza che le condotte costituenti “indice di sfruttamento” rileveranno solo ove dolosamente preordinate a sottoporre “i lavoratori a condizioni di sfruttamento” con consapevolezza e volontà di approfittare “del loro stato di bisogno”.

Quanto detto va considerato anche nell’ottica della revisione dei Modello 231 con l’introduzione di eventuali nuovi protocolli di prevenzione e dell’impostazione dell’analisi per far emergere comportamenti a rischio.

Sicuramente assumerà rilievo in tale ambito la gestione del personale, in seno alla quale dovrà essere posta attenzione, ad esempio, ad aspetti inerenti la definizione e gestione della retribuzione e l’organizzazione dei turni di lavoro che possono avere impatto sugli aspetti disciplinati al comma 3 punto 2).

L’organizzazione della sicurezza e la gestione ed attuazione dei relativi adempimenti assumono ora ulteriore rilievo, quali possibili fonti di Responsabilità 231, indipendentemente e non più solo in connessione al verificarsi di infortuni. Quindi meriteranno una rivalutazione ed un riesame anche tali aspetti e la politica d’impresa sulla sicurezza, magari già gestiti da specifici protocolli di prevenzione e procedure.