Finalmente un’importante conferma da parte della Suprema Corte, che chiarisce inequivocabilmente i confini tra soggetto apicale e soggetto sottoposto nell’ambito dell’organizzazione di una società.

Il tema è da sempre dibattuto ed ha visto contrapporsi opinioni dottrinali e pronunce giurisprudenziali che hanno di volta in volta ampliato o ristretto il novero dei soggetti apicali, senza soffermarsi in maniera approfondita sulla corretta interpretazione da attribuire alla lettera dell’art. 5 D.Lgs. 231/01.

La nostra opinione, espressa in numerosi convegni, è sempre stata nel senso di attribuire al concetto di “soggetto apicale”, individuato normativamente nelle “persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale”, un’interpretazione restrittiva circoscritta all’assoluto vertice della gestione societaria.

D’altro canto la lettera della norma parla di amministrazione e direzione o dell’intero ente o di una sua unità autonoma (richiamando concetti noti alla sicurezza sul lavoro per l’identificazione del “Datore di Lavoro”), concetti che non lasciano spazio ad un’estensione che abbracci soggetti posti al vertice di semplici “funzioni” aziendali.

Analogamente il concetto di “delega”, per quanto ampia, lascia sussistere una sottoposizione del delegato ad un potere di vigilanza del delegante.

La Corte di Cassazione Penale, Sez. IV, con sentenza n. 34943 del 21.9.2022 ha finalmente cristallizzato tale impostazione interpretativa, affermando “…le nozioni di amministrazione e di direzione dell’ente o di una singola unità organizzativa richiamano, seppure sotto il profilo funzionale, la struttura stessa dell’ente evocando la massima espressione dei poteri di indirizzo, di elaborazione delle scelte strategiche, della organizzazione aziendale, della assunzione delle decisioni e dei deliberati attraverso i quali l’ente persegue le proprie finalità. La direzione implica, di regola, un atto di prepositura con la quale il dirigente viene indirizzato all’intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa e viene investito di attribuzioni che, per ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, pure nel rispetto delle direttive programmatiche dell’ente, di imprimere un indirizzo o un orientamento al governo complessivo dell’azienda assumendo la corrispondente responsabilità ad alto livello”.

Per concludere che “non può riconoscersi rilievo decisivo al conferimento mediante atto di delega di specifiche attribuzioni per lo svolgimento di una funzione determinata, anche se nevralgica nell’azienda… Ciò in quanto il delegato rimane sottoposto al più ampio potere del delegante, che viene esercitato anche sotto forma di vigilanza…”.

L’interpretazione più restrittiva del concetto di “soggetto apicale” non è di poco conto, se si considera il diverso regime di responsabilità e la diversa incidenza dell’onere probatorio ricadente sull’accusa che gli artt. 6 e 7 D.Lgs. 231/01 disciplinano a seconda che il fatto reato sia commesso da un apicale o da un sottoposto.

Cliccare qui per la sentenza (link a italgiure.giustizia.it)

Da tempo ci si interroga in merito ai risvolti di una pronuncia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis c.p., introdotto con D.Lgs. 28/2015, sul procedimento per l’accertamento della responsabilità 231 in capo alla società.

In dottrina, autorevoli esponenti (tra cui l’Avv. Maurizio Arena nel contributo “Tenuità del fatto e responsabilità dell’ente” del 26.3.2015) hanno sostenuto con valide argomentazioni fondate sul D.Lgs. 231/01 e sulla Relazione ministeriale al Decreto stesso, che la menzionata declaratoria di tenuità del fatto giova alla persona fisica, ma “non implica una conseguente esclusione della responsabilità della persona giuridica per quel reato”.

Non sono mancate tesi contrapposte ed, in particolare, si evidenzia come una Circolare della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, contenente indicazioni operative, avesse espresso la seguente considerazione: “La disciplina segnata dall’art. 8 del D.lvo n. 231/ 2001 prevede soltanto che l’estinzione del reato, salvo che nell’ipotesi di amnistia, non esclude la responsabilità amministrativa dell’ente con conseguente  prosecuzione del procedimento penale nei suoi confronti. Una simile clausola di salvaguardia non è stata introdotta anche con riferimento all’ istituto della tenuità del danno, sicché l’archiviazione per la causa di non punibilità in esame riguardante la persona fisica si estende senza dubbio anche a quella giuridica”.

La Corte di Cassazione, Sez. III Penale, con sentenza n. 9072 del 28.2.2018, è infine intervenuta nell’affermare il seguente principio di diritto: “In tema di responsabilità degli enti, in presenza di una sentenza di applicazione della particolare tenuità del fatto, nei confronti della persona fisica responsabile della commissione del reato, il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio il reato fu commesso; accertamento di responsabilità che non può prescindere da una opportuna verifica della sussistenza in concreto del fatto reato, in quanto l’applicazione dell’art. 131 bis c.p. non esclude la responsabilità dell’ente, in via astratta, ma la stessa deve essere accertata effettivamente in concreto; non potendosi utilizzare, allo scopo, automaticamente la decisione di applicazione della particolare tenuità del fatto, emessa nei confronti della persona fisica”.

Riportiamo di seguito il testo del nostro articolo, già pubblicato sul settimanale giuridico “Euroconference Legal”.

Il procedimento penale 231 – La Cassazione prende posizione su vari aspetti controversi con la sentenza n. 41768/2017 della Sez. VI

di Alberto Tenca – Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca in Padova

 

Competenza per territorio e competenza per connessione rispetto a reati non oggetto di addebito 231, contestazione 231 con rinvio ai capi di imputazione per le persone fisiche, utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, indipendenza delle impugnazioni dell’imputato e dell’ente, queste le principali questioni procedimentali e processuali affrontate nelle 146 pagine della sentenza della Cassazione penale, Sez. VI, n. 41768 depositata il 13.9.2017.

Con tale pronuncia la Suprema Corte ha assunto precisa e motivata posizione su alcuni degli aspetti più controversi della disciplina processual-penalistica dell’accertamento della Responsabilità degli enti, in bilico tra norme del codice di procedura penale e disposizioni speciali di cui al D.Lgs. 231/01.

Competenza per territorio e connessione    

“Il <<giudice penale competente>> a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente è il medesimo <<giudice penale competente>> per i reati dai quali gli stessi dipendono, anche se la sua competenza in relazione a questi ultimi discende dall’applicazione delle regole di connessione”.

La Cassazione, dunque, sancisce la competenza in relazione al procedimento 231 in capo al giudice, non solo astrattamente, ma in concreto competente a decidere in merito al reato presupposto, a nulla rilevando che tale competenza sia determinata per connessione rispetto ad un diverso reato addebitato esclusivamente a persone fisiche.

Tale conclusione sarebbe per la Corte in linea con l’intenzione del legislatore tesa ad “agevolare il più possibile, la celebrazione di un simultaneus processus ed evitare contrasti di giudicato con conseguenti giudizi di revisione”.

Contestazione 231 con rinvio ai capi di imputazione per le persone fisiche

Secondo la Suprema Corte non è affetta da nullità la contestazione nei confronti dell’ente, laddove, come nel caso all’esame, gli elementi essenziali della stessa siano ricavabili dal rinvio ai capi di imputazione a carico delle persone fisiche.

La sentenza fa salva la contestazione, quanto all’indicazione dei rapporti ex art. 5 D.Lgs. 231/01 tra imputati persone fisiche ed ente, in quanto la contestazione stessa “opera un espresso analitico riferimento ai capi di imputazione addebitati alle persone fisiche, al dichiarato fine tanto dell’individuazione dei singoli reati-presupposto, quanto del tipo di rapporto intercorrente… tra l’ente e la persona fisica che agiva per suo conto”.

Il rinvio al contenuto di altri capi accusatori sanerebbe le lacune della contestazione specifica all’ente anche con riguardo all’individuazione dei requisiti di interesse e vantaggio. Si legge infatti: “è vero che il capo 90.f non esplicita puntualmente il profilo del vantaggio o dell’interesse dell’ente. Tuttavia, le singole contestazioni cui fa rinvio il capo 90.f consentono di individuare i vantaggi indebitamente conseguiti dalle società… in relazione a ciascun reato e gli interessi per le stesse illecitamente perseguiti”.

Utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche

La questione specifica è da sempre stata oggetto di dibattito dottrinale. Parte della dottrina escludeva l’utilizzabilità delle intercettazioni per l’accertamento dell’illecito amministrativo, in considerazione del fatto che le intercettazioni vengono autorizzate dal giudice solo in presenza di uno dei reati previsti dall’art. 266 c.p.p., non quindi in caso di “illeciti amministrativi dipendenti da reato”. Altra parte della dottrina riteneva che le intercettazioni fossero utilizzabili per effetto del richiamo alle regole generali del rito penale, anche al di fuori della simultaneità processuale, ovviamente solo nei casi in cui ciò sia consentito in relazione al particolare reato presupposto che si persegue.

In giurisprudenza si è spesso assistito, in concreto, ad un ampio utilizzo delle intercettazioni telefoniche, effettuate in relazione ai reati presupposto, anche nei confronti dell’ente incolpato ai sensi del D.Lgs. 231/01.

Un esempio è dato dalla sentenza n. 37712/14 della Corte di Cassazione, II Sezione Penale, che espressamente pone in risalto le risultanze di intercettazioni telefoniche in sede cautelare 231, al fine di trarre da esse conferma circa “la sussistenza del concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede”.

La recentissima sentenza qui in esame affronta direttamente la questione, per rispondere alle doglianze della difesa, affermando che “è indiscusso che le disposizioni del codice di procedura penale in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni si applichino anche nei confronti degli enti”.

La motivazione si fonda innanzitutto sul disposto degli artt. 34 e 35 D.Lgs. 231/01 che richiamano l’applicabilità delle disposizioni del codice di procedura penale in quanto compatibili e l’applicabilità all’ente delle disposizioni processuali relative all’imputato. Dettati normativi che, secondo la Corte, sarebbero corroborati dalla Relazione Ministeriale al D.Lgs. 231/01 laddove si osserva che “Poiché l’illecito penale è uno dei presupposti della responsabilità, occorre disporre di tutti i necessari strumenti di accertamento di cui è provvisto il procedimento penale…”.

La sentenza richiama “il consolidato orientamento giurisprudenziale”, secondo cui “i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per uno dei reati rientranti tra quelli indicati nell’art. 266 c.p.p. sono utilizzabili anche con riferimento ad altri reati che emergano dall’attività di captazione, ancorchè per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite, purchè tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dei reati per cui si procede separatamente vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, cosicchè il relativo procedimento possa ritenersi non diverso rispetto al primo, ai sensi dell’art. 270 c.p.p., comma 1”.

Da tale orientamento la Suprema Corte deduce che “sembra ragionevole concludere che i risultati desumibili dalle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni ordinate per il reato presupposto sono comunque utilizzabili anche per accertare la responsabilità dell’ente, ed anche se il procedimento relativo a quest’ultimo sia stato formalmente separato per vicende successive. Invero, pure a voler sottolineare che altro è il reato presupposto ed altro è l’illecito amministrativo dipendente dal reato presupposto, è innegabile l’esistenza di una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico, tra il contenuto dell’originaria notizia di reato alla base dell’autorizzazione e quello dell’illecito amministrativo dipendente dal medesimo reato”.

Indipendenza delle impugnazioni dell’imputato e dell’ente

Sul punto la Suprema Corte afferma che “… le impugnazioni dell’imputato persona fisica e dell’ente sono e restano tra di loro indipendenti: è solo l’eventuale risultato positivo che si estende per evitare giudicati contrastanti che potrebbero imporre la revisione della sentenza dichiarativa di responsabilità nei confronti dell’ente…”.

Tale principio, che discenderebbe da un lato dalla “limitazione soggettiva” prevista dall’art. 71 D.Lgs. 231/01, che individua nell’ente e nel pubblico ministero i soli soggetti legittimati ad impugnare le sentenze che applichino le “sanzioni amministrative” 231, dall’altro dall’art. 72 del decreto stesso, laddove prevede che le impugnazioni di imputato ed ente “giovano, rispettivamente, all’ente e all’imputato…”, determina che “… l’imputato persona fisica autore del reato presupposto, anche quando sia rappresentante legale e socio della persona giuridica, non è legittimato, né ha interesse ad impugnare il capo della sentenza relativo all’affermazione di responsabilità amministrativa dell’ente…”.

Queste sono solo alcune delle interessanti posizioni assunte dalla Suprema Corte in seno alla sentenza in oggetto, cui altre se ne aggiungono sul piano processuale e sostanziale e con le quali non sarà possibile non confrontarsi nell’esperimento della difesa penale degli enti.

 

La questione della giurisdizione del giudice italiano e della applicabilità del D.Lgs. 231/01 in caso di reato presupposto commesso all’estero e di reato commesso in Italia da Enti esteri riveste da sempre grande interesse, sia in ambito processuale, sia in sede di realizzazione dei Modelli di Organizzazione e Gestione.
Sotto tale secondo aspetto, infatti, da un lato la rilevanza dei fatti reato presupposto commessi all’estero deve necessariamente essere considerata nella costruzione dei Modelli di prevenzione, dall’altro l’applicabilità della norma italiana ad Enti esteri operanti in Italia deve essere dagli stessi considerata ai fini della valutazione di eventuale adozione del Modello esimente ex D.Lgs. 231/01.

Se l’applicabilità della norma agli Enti aventi in Italia la sede principale per fatti commessi all’estero trova espressa disciplina nell’art. 4 D.Lgs. 231/01, che ne prevede anche puntualmente le condizioni, non vi è di converso alcun dettato normativo in relazione all’ipotesi di reati commessi in Italia da Enti esteri.

In proposito, la giurisprudenza di merito ha tuttavia ripetutamente affermato l’applicabilità della norma a società straniere per reati commessi nel territorio italiano, in ragione del fatto che le società straniere operanti in Italia devono osservare le leggi del nostro ordinamento ed hanno l’onere di attivarsi ed uniformarsi alle relative normative.
La ragione giuridica di tale applicabilità è stata rinvenuta in:
– art. 34 D.Lgs. 231/01 che rinvia alle norme del codice di procedura penale;
– art. 36 D.Lgs. 231/01 che radica la competenza a decidere l’illecito 231 in capo al Giudice competente per il reato presupposto.

In tale contesto si colloca la recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, n. 11442 depositata il 17.3.2016.

In essa la Suprema Corte ritiene che, ai fini dell’applicabilità del D.Lgs. 231/01, il reato presupposto debba considerarsi commesso in Italia anche nel caso in cui nel territorio italiano si verifichi la sola “ideazione” dello stesso.

I Giudici di merito hanno accertato che l’amministrazione della società olandese… avveniva infatti nella sede di San Donato Milanese della società italiana, dove venivano adottate tutte le decisioni strategiche ed organizzative.
E’ principio consolidato che, ai fini della punibilità dei reati commessi in parte all’estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, che, seppur privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero…. A tal fine è stata ritenuta sufficiente l’essersi verificata in Italia anche la sola ideazione del delitto, quantunque la restante condotta sia stata attuata all’estero…

Di particolare interesse è anche quanto la Suprema Corte afferma, laddove esclude che, per i fatti commessi in parte in Italia, la definizione dei processi penali avviati all’estero contro la società precludano la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti.

Si legge in sentenza:

Gli accordi raggiunti in Nigeria e negli Stati Uniti d’America per la definizione dei processi penali avviati in tali Stati non precludono la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti.
In relazione a questi Paesi non vige infatti alcun obbligo pattizio che impedisca l’esercizio della giurisdizione italiana.
Tale obbligo non sussiste non solo per il perseguimento degli illeciti previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, ma neppure in relazione ai reati ad essi connessi.
E’ principio consolidato nella giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità (tra le tante, Corte cost. 58 del 1997; Sez. 2, n. 40553 del 21/05/2013, Tropeano, Rv. 256469) che il ne bis in idem internazionale in materia penale non costituisca principio o consuetudine di diritto internazionale, sicchè deve trovare la sua fonte esclusivamente in un obbligo pattizio.
Le convenzioni citate dalla ricorrente (Convenzione Ocse sulla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri e Convenzione ONU contro la corruzione) prevedono soltanto meccanismi procedurali volti ad evitare che, in relazione allo stesso fatto, vengano avviati, dinanzi a diverse autorità nazionali, paralleli procedimenti penali. Tali meccanismi si esauriscono nella consultazione reciproca degli Stati al fine di stabilire quale tra le giurisdizioni concorrenti sia la più “idonea” ad esercitare l’azione penale. E’ significativo che l’art. 42, par. 6, della Convenzione ONU, precisi a tal riguardo che “fatte salve le norme di diritto internazionale generale, la presente Convenzione non esclude l’esercizio di ogni competenza penale stabilita da uno Stato Parte conformemente al proprio diritto interno”, con ciò ribadendo che, al di là della consultazione, non sussistono ulteriori conseguenze discendenti dalla Convenzione stessa.

Nel ratificare tali convenzioni, in ogni caso, l’Italia non ha ritenuto di introdurre norme volta a precludere in via generale il rinnovamento del giudizio per gli stessi fatti.

Nel D.Lgs. n. 231 del 2001, si è soltanto previsto, in relazione alla responsabilità degli enti, di apporre uno sbarramento alla perseguibilità dell’illecito commesso dall’ente nei casi in cui nei suoi confronti già proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto. Come prevede, l’art. 4 D.Lgs. cit. tale sbarramento opera in relazione ai soli “reati commessi all’estero”.
Ipotesi nella specie, non ricorrente per quanto in precedenza affermato.”

Cliccare qui per visualizzare la sentenza, come pubblicata sul sito della Corte di Cassazione.

Le Sezioni Unite della Cassazione Penale si sono pronunciate su vari importanti aspetti che concernono il rapporto tra procedura fallimentare e processo 231, partendo dal seguente quesito:

“Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 19, comma 2, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest’ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia)”.

IL FALLIMENTO NON ESTINGUE L’ILLECITO 231

Un primo principio espresso nella motivazione della sentenza non costituisce una novità, ma sancisce quanto già affermato dalla giurisprudenza:
“Deve escludersi che il fallimento della società determini l’estinzione dell’illecito previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001,… rilevato che il fallimento non è normativamente previsto quale causa estintiva dell’illecito dell’ente e non è possibile assimilare il fallimento della società alla morte del reo perchè una società in stato di dissesto, per la quale si apra la procedura fallimentare, non può dirsi estinta, tanto è vero che il curatore ha esclusivamente poteri di gestione del patrimonio al fine di evitare il depauperamento dello stesso e garantire la par condicio creditorum mentre la proprietà del patrimonio compete ancora alla società”.

LA CONFISCA 231 E’ SEMPRE OBBLIGATORIA E I DIRITTI DEI TERZI IN BUONA FEDE SONO SALVI ANCHE NELLA CONFISCA PER EQUIVALENTE

Quanto alla confisca ex art. 19, co. 1 e 2 D.Lgs. 231/01, le Sezioni Unite affermano i seguenti principi:
1) “L’applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto del reato prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, commi 1 e 2, non è lasciata alla discrezionalità del giudice, ma è obbligatoria”… “sotto il profilo lessicale il termine “può”, come è già stato posto in evidenza, segnala, non la facoltatività o la discrezionalità, ma il carattere eventuale della confisca per equivalente in relazione alla non scontata sussistenza dei due presupposti attinenti alla impossibilità di procedere alla confisca diretta del profitto ed alla necessità di individuare altri beni appartenenti all’ente responsabile”.

2) La clausola di salvaguardia del comma 1 dell’art. 19 “Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede” si riferisce anche alla confisca per equivalente. Si legge infatti nella sentenza: “La clausola di salvaguardia non è ripetuta nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, ma è fuori contestazione che essa si riferisca anche al sequestro di valore perchè con il secondo comma si estende soltanto la possibilità di confisca di danaro e beni di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato, fermi restando, quindi, i limiti fissati dal comma 1 dello stesso articolo”.

IL SEQUESTRO 231 E LA PROCEDURA CONCORSUALE POSSONO COESISTERE

Venendo al quesito iniziale, la Sentenza sancisce la possibile coesistenza del sequestro finalizzato alla confisca ex D.Lgs. 231/01 con i vincoli sui beni derivanti dalla procedura concorsuale:
Orbene i due vincoli possono coesistere e, se correttamente interpretato il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, l’uno non ostacola l’altro, anzi, sotto certi profili, si può dire che il sequestro prima e la confisca poi tutelano in misura rafforzata gli interessi del ceto creditorio”.

IL CURATORE NON E’ LEGITTIMATO AD IMPUGNARE IL SEQUESTRO 231

Secondo le Sezioni Unite: “il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19“.
Ciò in quanto: “il curatore… non può essere considerato come un soggetto privato che agisca in rappresentanza o sostituzione del fallito e/o dei singoli creditori o del comitato dei creditori, ma deve essere visto come organo che svolge una funzione pubblica ed affianca il tribunale ed il giudice delegato per il perseguimento degli interessi dinanzi indicati” ed ancora “Il curatore… è un soggetto gravato da un munus pubblico, di carattere prevalentemente gestionale, che affianca il giudice delegato al fallimento ed il tribunale per consentire il perseguimento degli obiettivi, già indicati, propri della procedura fallimentare”

Se ne deve dedurre una ulteriore logica conseguenza che sarebbe stato bene fosse chiarita in modo espresso e cioè che, come già affermato in dottrina, in caso di fallimento l’ente non sta in giudizio 231 in persona del curatore, ma degli organi sociali che ne avevano la legale rappresentanza e che rimangono in carica per il compimento degli atti non vietati dalla procedura fallimentare.
Tale questione specifica era rimasta aperta e non risolta già in seno alla sentenza Cass. Pen. Sez. V n. 44824 del 2012, ove si legge soltanto che “la questione circa l’individuazione del soggetto legittimato a stare in giudizio nel processo di responsabilità amministrativa dell’ente è una questione processuale da risolvere nel processo…” .

LA COMPETENZA A DECIDERE SE IL DIRITTO DI UN TERZO PREVALGA SULLA CONFISCA 231 E’ DEL GIUDICE PENALE E NON DI QUELLO FALLIMENTARE

Le Sezioni Unite affermano il seguente principio: “La verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare“, chiarendo che “Quando, però, sia stata pronunciata sentenza definitiva di condanna dell’ente e sia stata disposta la confisca dei beni appartenenti allo stesso, il giudice competente a decidere sulla istanza del terzo non potrà che essere il giudice dell’esecuzione penale, che, ai sensi dell’art. 665 c.p.p. e ss., è chiamato a risolvere, su istanza delle parti interessate, tutte le questioni che attengono alla esecuzione dei provvedimenti giudiziari definitivi”.

I BENI SOTTOPOSTI A SEQUESTRO 231 POSSONO ESSERE VENDUTI IN SENO ALLA PROCEDURA FALLIMENTARE?

Fino a qui i principi espressi dalle Sezioni Unite appaiono chiari, ma laddove la sentenza in esame affronta i meccanismi di coesistenza del sequestro 231 e della procedura concorsuale nascono alcune perplessità di non pacifica soluzione.

Secondo le Sezioni Unite, tale coesistenza di vincoli non determinerebbe alcun pregiudizio in quanto “se venga disposta la confisca dei beni in pendenza di una procedura fallimentare sugli stessi, lo Stato potrà insinuarsi nel fallimento per far valere il proprio diritto, che sarà soddisfatto dopo che siano stati salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede” ed, in altro passaggio argomentativo, “lo Stato, come si è posto in evidenza, potrà far valere il suo diritto sui beni sottoposti a vincolo fallimentare, salvaguardando i diritti riconosciuti ai creditori, soltanto a conclusione della procedura“. Ciò secondo la Suprema Corte potrà avvenire “soltanto alla fine della procedura” quando “si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere alla assegnazione dei beni ai creditori” in quanto “è soltanto in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate“.

Dunque, si evidenzia che i terzi creditori potranno far valere avanti il Giudice Penale i propri diritti su quanto sequestrato o confiscato solo dopo la vendita fallimentare dei beni stessi, che dovrebbe dunque essere autorizzata e disposta in pendenza del sequestro ai fini della confisca 231. Ma ciò non è sicuramente previsto dall’art. 53 D.Lgs. 231/01, che prevede solo la possibilità di utilizzo e gestione dei beni sequestrati per garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, anche, secondo le Sezioni Unite, da parte del Curatore.

Ad alimentare le nostre perplessità è anche quanto affermato con Ordinanza della Cass. Pen. Sez.III n. 12639/2013: “Secondo la giurisprudenza di questa Corte anche a sezioni unite – alla quale si intende senz’altro prestare adesione – il sequestro avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura fallimentare. La valutazione che viene richiesta ai giudice della cautela reale sulla pericolosità della cosa non contiene margini di discrezionalità, in quanto la res è considerata pericolosa in base ad una presunzione assoluta: la legge vuole escludere che il bene sia rimesso in circolazione, sia pure attraverso l’espropriazione del reo, sicchè non può consentirsi che il bene stesso, restituito all’ufficio fallimentare, possa essere venduto medio tempore e il ricavato distribuito ai creditori”.

Ma se i beni sequestrati a fini di confisca non possono essere venduti e solo dopo la vendita e l’approvazione del piano di riparto i terzi “potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate”, quid iuris?

Cliccare qui per il testo della Sentenza Cass. Pen. Sez. Unite 11170/2015

Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca

La Sentenza della Sesta Sezione della Suprema Corte n. 18257 del 30.4.2015 affronta sotto un nuovo aspetto il peculiare istituto della “prescrizione” degli illeciti ex D.Lgs. 231/01.

Tale istituto rappresenta indubbiamente un elemento di anomalia nel complesso sistema punitivo delineato dal D.Lgs. 231/01, sia laddove alla “prescrizione” si affianca il diverso istituto della “decadenza dalla contestazione” di cui all’art. 60 del Decreto stesso, sia nell’individuazione degli effetti interruttivi della prescrizione connessi all’atto di contestazione dell’illecito secondo l’art. 22.

La citata anomalia consiste nella introduzione di principi analogicamente tratti da norme processuali di diritto civile in seno alla disciplina di una responsabilità pacificamente riconosciuta dalla Suprema Corte come di matrice penale.

Che la Responsabilità Amministrativa 231 ed il sistema punitivo delineato dal D.Lgs. 231/01 siano di natura penalistica, al di là dell’espresso richiamo alle norme del codice di procedura penale di cui all’art. 34, è un principio affermato da numerosissime pronunce della Corte di Cassazione, che ne traggono le dovute conseguenze.
Si pensi, a titolo esemplificativo, alla Sentenza n. 10561 del 5.3.2014 con la quale le Sezioni Unite, dopo aver affermato l’irrazionalità dell’assenza dei reati tributari tra i reati presupposto della Responsabilità 231, concludono evidenziando che “Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale l’art. 25 Cost., comma 2, deve ritenersi ostativo all’adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore”.

Ebbene, nell’alveo di un siffatto sistema punitivo penalistico, ove si affronta l’istituto della prescrizione delle sanzioni si attinge invece a principi di diritto  civile, ed infatti l’art. 22 D.Lgs. 231/01 dispone:
“1.  Le sanzioni amministrative si prescrivono nel termine di cinque anni dalla data di consumazione del reato.
2.  Interrompono la prescrizione la richiesta di applicazione di misure cautelari interdittive e la contestazione dell’illecito amministrativo a norma dell’articolo 59
4.  Se l’interruzione è avvenuta mediante la contestazione dell’illecito amministrativo dipendente da reato, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio“.

E’ evidente l’estraneità di tale effetto sospensivo della prescrizione sino al passaggio in giudicato della sentenza, rispetto ai principi che regolano la prescrizione di cui all’art. 157 e ss. del codice penale ed invece l’analogia rispetto all’art. 2945 co. 2 del codice civile.
Ed, infatti, la Cassazione, già con Sentenza Cass. Pen. sez V n.20060 del 9.5.2013, ha affermato: “D’altronde, se è vero che l’illecito amministrativo si prescrive in cinque anni dalla commissione dal reato, è anche vero che si devono applicare le cause interruttive del codice civile e pertanto la prescrizione non corre fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento (articolo 2945 cod. civ.. Per un caso analogo si veda Sez. 4, n. 9090 del 05/04/2000, Lefemine, Rv. 217126: A norma degli artt. 2943 e 2945 cod. civ. la prescrizione è interrotta dall’atto col quale si inizia un giudizio ed essa pertanto non decorre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il processo…”.

La Sentenza in commento n. 18257 del 30.4.2015 individua il perchè dell’anomalia sopra descritta, riconoscendone la causa nella precisa scelta legislativa operata in seno alla L. 300/2000, di cui il D.Lgs. 231/01 rappresenta il Decreto attuativo. Infatti all’art. 11 della L. 300/2000 è prevista la delega al governo a r) prevedere che le sanzioni amministrative di cui alle lettere g), i) e l) si prescrivono decorsi cinque anni dalla consumazione dei reati indicati nelle lettere a), b) c) e d) e che l’interruzione della prescrizione è regolata dalle norme del codice civile“.

Ciò detto, la nuova pronuncia in commento affronta il diverso aspetto concernente il momento in cui l’atto interruttivo della prescrizione, consistente nella contestazione dell’illecito, esplicherebbe i propri effetti, se con l’emissione della richiesta di rinvio a giudizio secondo le regole del codice penale oppure soltanto nel momento dell’avvenuta notifica di tale richiesta.

Scrive la Corte: “Ciò posto, va considerato come non è in dubbio, in quanto espressamente previsto, che nella disciplina dell’interruzione della prescrizione del diritto civile (art. 2943 c.c.) l’effetto di interruzione si ottenga con la portata a conoscenza dell’atto nei confronti del debitore, in particolare con la notifica degli atti processuali; del resto la ragione è che, in quel caso, l’atto introduttivo rappresenti la richiesta al debitore che non può che decorrere dalla effettiva conoscenza, mentre, nel processo penale, la prescrizione rileva in quanto mancato esercizio dell’azione penale, tenendosi perciò conto del compimento delle attività relative, ovvero dell’emissione dei provvedimento, e non della notifica.”

La conseguenza, nel caso di specie, è stata la conferma della pronuncia dichiarativa di prescrizione a fronte di una richiesta di rinvio a giudizio emessa prima dello scadere del quinto anno, ma notificata soltanto dopo la scadenza medesima.

Per il testo completo della Sentenza Cass. Pen. Sez. VI n. 18257/2015 cliccare qui.

Studio Legale Associato Di Lorenzo – Tenca

La sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Cassazione Penale nel caso ThyssenKrupp, depositata il 18 settembre 2014, con le sue 214 pagine, rappresenta indubbiamente la pronuncia di maggior importanza nel panorama giurisprudenziale recente, sia per la vastità ed eterogeneità degli argomenti affrontati, sia per la fondamentale importanza degli stessi.

La sentenza, con la suddivisione indicizzata in capitoli e con la sua particolare chiarezza espositiva, si presenta come un manuale prezioso per l’avvocato penalista.

L’interesse per tale pronuncia va ben al di là dell’ormai nota questione concernente la demarcazione tra “colpa cosciente” e “dolo eventuale”, che costituisce soltanto una delle molte questioni  su cui le Sezioni Unite si concentrano.

Di enorme rilievo sono, ad esempio, i capitoli della motivazione che si occupano della prova del nesso di causalità nelle condotte colpose omissive.
Sul punto la nuova sentenza si offre come nuovo pilastro di riferimento che viene a sostituirsi alla famosa e sinora intoccata Sentenza Franzese del 2002, con risvolti non trascurabili nell’affrontare processi per fattispecie colpose di qualsivoglia genere, dalla sicurezza sul lavoro, alla responsabilità medica.
Le Sezioni Unite dichiarano espressamente, con riferimento alla pronuncia Franzese, che da essa “non di rado si traggono principi ed enunciazioni opposte” e che “ad oltre dieci anni da tale importante e condivisa pronunzia, si pone, in conseguenza, la necessità di una breve messa a fuoco ed attualizzazione di alcune questioni di principio, anche alla luce della recente esperienza giuridica” (pag. 91 e ss.).
L’ottica argomentativa, enunciata a pag. 98, è quella di rendere “praticabile il giudizio di imputazione dell’evento, allontanando la prospettiva di indiscriminata impunità anche per condotte omissive gravemente trascurate e dannose” mediante il concetto di “corroborazione dell’ipotesi”.

Importanza e chiarezza degne di nota traspaiono anche dalle argomentazioni concernenti Le posizioni di garanzia” in materia di sicurezza sul lavoro.
Le Sezioni Unite affermano la necessità di “arginare l’eccessiva forza espansiva dell’imputazione del fatto determinata dal condizionalismo”, di “tentare di limitare, separare le sfere di responsabilità, in modo che il diritto penale possa realizzare la sua vocazione ad esprimere un ben ponderato giudizio sulla paternità dell’evento illecito” ed ancora di “tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori”.
Di rilievo anche l’affermata demarcazione tra soggetti garanti che “hanno un’originaria sfera di responsabilità che non hanno bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall’investitura o dal fatto” e soggetti delegati ex art. 16 D.Lgs. 81/08.

Da ultimo, per successione delle argomentazioni, ma non per importanza, la questione delleResponsabilità da reato dell’ente”, affrontata sotto vari profili, dalla natura di detta responsabilità quale tertium genus con “evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale“, ai criteri di imputazione dell’ente, con particolare riguardo all’interesse e vantaggio nei reati colposi, concetti che “vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico”.
Segue, infine, una presa di posizione in merito al profitto confiscabile, individuabile anche nel “risparmio di spesa”.

Cliccare qui per il testo della Cass. Pen. S.U. 38343_2014, tratto dal sito www.cortedicassazione.it

 

 

Con la sentenza n. 37712/2014 della Cassazione Penale, Sezione II, depositata il 15 settembre 2014, la Suprema Corte ribadisce alcuni importanti principi in materia di presupposti per l’applicazione all’ente di una misura cautelare interdittiva ex D.Lgs. 231/01 (nella specie il “divieto di contrattare con la P.A. per un anno”).

Quanto al requisito di cui all’art. 13 co. 1 lett. a) D.Lgs. 231/01, che prevede quale condizione di applicabilità delle sanzioni interdittive e, quindi, anche della loro applicazione in via cautelare, il fatto che l’ente abbia tratto “un profitto di rilevante entità”, la Corte ha ribadito il principio secondo cui “la nozione di profitto di rilevante entità ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito”.
La Suprema Corte ricorda anche il pacifico principio di alternatività di tale condizione con quella di cui alla lett. b)  del medesimo art. 13 concernente la “reiterazione degli illeciti”.

Meritevole di maggior attenzione è quanto sostenuto nella sentenza relativamente alla valutazione di permanenza del “periculum” di commissione di nuovi illeciti (condizione ex art. 45 co. 1 D.Lgs. 231/01 per l’applicazione della misura) in caso di estromissione e sostituzione degli amministratori.
Già nel 2006, con sentenza Cass Pen VI n. 32626/2006, la Suprema Corte aveva affermato che “la sostituzione o l’estromissione degli amministratori coinvolti possa portare ad escludere la sussistenza del periculum richiesto dall’art. 45 cit., ma a condizione che ciò rappresenti il sintomo che l’ente inizi a muoversi verso un diverso tipo di organizzazione, in cui sia presente l’obiettivo di evitare il rischio reato“.
La nuova sentenza n. 37712/2014 applica tale principio nel valutare il caso posto alla sua attenzione, offrendo importanti spunti di riflessione.

Secondo la Suprema Corte “Per quanto riguarda il cambio di amministratore (non è più l’indagato…)… si sottolinea come tale cambio sia strumentale alla presentazione dell’appello data la stretta “contiguità temporale tra i due eventi” e per il fatto che nel verbale di assemblea non sono spiegate le ragioni di tale sostituzione nè vengono indicate le competenze e professionalità del nuovo amministratore appena trentenne. Il Tribunale, inoltre, osserva che nella denominazione sociale permane il riferimento a …. e che non vi è alcuna prova che questi sia uscito dal gruppo e non abbia più alcuna influenza su di esso”.

Con tale sentenza vengono pertanto offerte, a contrariis, alcune indicazioni essenziali per l’ente che voglia ottenere il riconoscimento di esclusione del “periculum” mediante un cambio organizzativo nel vertice:

– prestare attenzione al momento di tale cambiamento, che può costituire sintomo di strumentalità se fatto contestualmente alla presentazione dell’appello;

– motivare in seno al verbale di assemblea le ragioni del cambiamento;

– scegliere con attenzione il nuovo vertice, in considerazione delle competenze, professionalità ed esperienza del soggetto nominato.

Sicuramente più complicato ed, a nostro parere eccessivo, è quanto rilevato in relazione al permanere del riferimento al soggetto indagato “nella denominazione sociale” ed alla carenza di prova del fatto che egli non abbia più alcuna influenza.
Riteniamo che richiedere, per la valutazione di esclusione del “periculum”, persino un cambio di denominazione sociale ed una difficilissima prova negativa di assenza di influenza del soggetto, porti a vanificare in concreto il lodevole comportamento dell’ente che intenda effettivamente dare prova di un cambio di rotta verso la legalità e prevenzione da reato.

Un ultimo aspetto di interesse della pronuncia, che lascia non poche perplessità, riguarda l’utilizzabilità in seno al procedimento 231 dello strumento di indagine e prova costituito dalle “intercettazioni telefoniche”.
Molti i dubbi sollevati in dottrina sull’utilizzabilità probatoria di tale strumento per la valutazione di responsabilità dell’ente, alla luce dei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 c.p.p. e dei limiti espressi dall’art. 270 c.p.p. per l’utilizzabilità delle intercettazione “in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti”.
Di fatto, abbiamo spesso assistito all’utilizzazione processuale delle intercettazioni, ove consentite alla luce del tipo di reato presupposto, in relazione alla prova della commissione del reato o per la valutazione degli indizi di commissione dello stesso a fini cautelari, anche nei confronti dell’ente chiamato a rispondere ex D.Lgs. 231/01 (vedasi ad es. Trib. Gorizia – GIP -ordinanza 22.7.2013).
La sentenza in commento va oltre, dando espressamente atto dell’utilizzo delle intercettazioni telefoniche non soltanto in relazione alle valutazioni sulla commissione o meno dei reati in ordine ai quali sono state disposte, ma altresì per supportare il giudizio di sussistenza  di condizioni per l’applicazione di misure cautelari proprie e peculiari del procedimento 231: “intercettazioni telefoniche che confermano la sussistenza del concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede… solo grazie alle intercettazioni è stato possibile scoprire l’inganno posto in essere dalla società ricorrente e iniziare così l’attuale procedimento”.

 

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 218 del 9 luglio 2014, depositata il 18 luglio 2014 si è pronunciata affermando, tra l’altro, i seguenti principi:

– L’Ente chiamato a rispondere ai sensi del D.Lgs. 231/01 non può qualificarsi come “coimputato” con l’autore del reato presupposto;

– L’Ente chiamato a rispondere ai sensi del D.Lgs. 231/01 può essere citato nel medesimo procedimento come responsabile civile ex art. 83 c.p.p.

Il caso in sintesi

Il GUP presso il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 c.p.p. e del D.Lgs. 231/01 nella parte in cui “non prevedono espressamente e non permettono che le persone offese e vittime del reato non possano chiedere direttamente alle persone giuridiche ed agli enti il risarcimento in via civile e nel processo penale nei loro confronti dei danni subiti e di cui le stesse persone giuridiche e gli enti siano chiamati a rispondere per il comportamento dei loro dipendenti“.

Il GUP aveva rigettato la richiesta di costituzione di parte civile nei confronti dell’Ente nel procedimento 231, dopo aver investito la Corte di giustizia europea della decisione in merito alla compatibilità della norma italiana alla “Direttiva Europea sulla tutela delle vittime da reato”.

Cliccare qui per il testo della sentenza Corte Cost. n.218/14

La Corte di giustizia europea, con decisione del 12 luglio 2012 aveva infatti affermato che la norma italiana è compatibile con il Diritto Europeo in quanto nulla osta “a che, nel contesto di un regime di responsabilità delle persone giuridiche come quello in discussione nel procedimento principale, la vittima del reato non possa chiedere il risarcimento dei danni direttamente causati allo stesso, nell’ambito del processo penale, alla persona giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato.

Il GUP, però, ha ritenuto di non poter accogliere neppure la richiesta di citazione dell’Ente come responsabile civile ex art. 83 c.p.p. sulla base dei seguenti passaggi logici:

– l’art. 83 c.p.p. escluderebbe la citazione quale responsabile civile di un soggetto coimputato nel medesimo procedimento penale;

– ciò costituirebbe una “garanzia” per l’imputato ed a norma dell’art. 35 D.Lgs. 231/01 tale disposizione relativa all’imputato si applicherebbe anche all’Ente;

–  pertanto, neppure nei confronti dell’Ente tratto a giudizio ex D.Lgs. 231/01 sarebbe ammissibile la citazione quale responsabile civile.

Escluse, quindi, sia la possibilità di costituirsi parte civile contro l’Ente, sia la possibilità di citarlo quale responsabile civile, la vittima del reato non potrebbe ottenere ristoro dei danni subiti da parte dell’Ente in alcun modo.

La decisione della Consulta

La Corte Costituzionale, oltre a dichiarare inammissibile la questione come proposta sotto vari profili, critica il ragionamento del Giudice rimettente, affermando che:

– l’art. 83 c.p.p. non esclude che possa essere citato un coimputato quale responsabile civile, ma tale citazione è ammissibile sotto condizione, producendo effetti solo nel caso in cui il coimputato citato sia prosciolto od ottenga sentenza di non luogo a procedere;

– tale norma non è posta a “garanzia” dell’imputato, ma per evitare che lo stesso soggetto sia chiamato a rispondere civilisticamente per il medesimo fatto sia come autore, che come responsabile civile per la condotta del coimputato;

comunque, l’Ente e l’autore del rato presupposto non possono qualificarsi “coimputati”.
Infatti, la Consulta evidenzia come “l’illecito ascrivibile all’ente costituisca una fattispecie complessa e non si identifichi con il reato commesso dalla persona fisica…, il quale è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità amministrativa, unitamente alla qualifica soggettiva della persona fisica, alle condizioni perchè della sua condotta debba essere ritenuto responsabile l’ente e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio di questo. Ma se l’illecito di cui l’ente è chiamato a rispondere ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 non coincide con il reato, l’ente e l’autore di questo non possono qualificarsi coimputati, essendo ad essi ascritti due illeciti strutturalmente diversi
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Cliccare qui per il testo della sentenza Corte Cost. n.218/14

 

Alleghiamo qui di seguito alcune delle più importanti pronunce giurisprudenziali che affrontano aspetti del procedimento e del processo ex D.Lgs. 231/01.

Si ritiene che tali provvedimenti siano di particolare utilità per orientare l’attività del difensore dell’ente, soprattutto nella delicatissima fase iniziale e cautelare.

La rappresentanza dell’ente nel procedimento e nel giudizio

Corte Cost. 249/11

Tribunale Torino – GIP – ordinanza 22.11.2013

Cass. Pen. Sez. VI 41398/09

Misure cautelari interdittive – Presupposti di applicazione, sospensione o revoca

Trib. Gorizia – GIP -ordinanza 22.7.2013

Cass. Pen. sez. VI 10903/2013

Cass. Pen. Sez. II 326/14

Cass. pen. Sez. VI 6248/12

Sequestro 231 conservativo e preventivo

Cass. pen. Sez. V 33765/13

Cass. Pen. Sez. VI 3635/14

Decadenza e Prescrizione

Cass. Pen. Sez. V 20060/13

Costituzione di Parte Civile avverso l’Ente e Costituzione di Parte Civile dell’Ente sottoposto a procedimento 231 nei confronti dell’autore del reato presupposto

Trib. Milano – GUP – ordinanza 11.6.10

Cass. Pen. Sez. VI 2251/11